Si è tenuta il 16 marzo a New York, presso la Saint Patrick’s Old Cathedral School e alla presenza del Console Generale Fabrizio Di Michele, la presentazione del Rapporto Italiani nel Mondo 2024. Un appuntamento che ogni anno prova a restituire un quadro aggiornato e dettagliato dei movimenti migratori degli italiani, sempre più numerosi, sempre più complessi. L’evento, organizzato dalla Fondazione Migrantes insieme al Patronato ACLI e al CGIE, ha avuto quest’anno un taglio particolare, con uno sguardo rivolto al fenomeno migratorio a New York, città simbolo di molte partenze e, in alcuni casi, di nuovi inizi.
Il Rapporto evidenzia come l’Italia sia oggi attraversata da migrazioni plurime: principalmente italiani che lasciano il Paese, ma anche persone che tornano, italodiscendenti che richiedono la cittadinanza e figli di migranti nati in Italia che non si sentono stranieri. Ma, ovviamente, c’è anche un’Italia che si svuota. I dati parlano chiaro: dal 2006 il numero di italiani iscritti all’AIRE è quasi raddoppiato, superando i sei milioni di residenti ufficiali all’estero. A lasciare il paese sono in maggioranza giovani tra i 18 e i 34 anni, ma crescono anche i nuclei familiari con figli piccoli e, negli ultimi anni, una quota crescente di pensionati.
La geografia di questa mobilità è variegata, ma la tendenza è la stessa: le partenze aumentano, i ritorni restano pochi. Il saldo migratorio resta negativo e le aree interne si spopolano, mentre le città, sempre più costose, non riescono più ad attrarre e trattenere i giovani. Il risultato è una “ferita migratoria” che, secondo la Fondazione Migrantes, va guarita riconoscendo le partenze come opportunità e non come abbandoni. All’estero, le comunità italiane si organizzano, costruiscono nuovi legami e conservano una forte identità, ma chiedono un riconoscimento formale e un dialogo continuo con le istituzioni italiane.
Delfina Licata, curatrice del Rapporto, ha definito questa emigrazione «unica nella storia italiana, per quantità e qualità dei profili coinvolti». Un’emigrazione che non segue più i modelli del passato, e che oggi, secondo Licata, «richiede un racconto più complesso e sfaccettato». Il Rapporto stesso, nato quasi vent’anni fa come progetto editoriale, si è trasformato in un’iniziativa culturale che raccoglie analisi statistiche ma anche storie e testimonianze delle comunità italiane nel mondo.
Il fenomeno migratorio, tuttavia, non è solo un fatto numerico. E non si può ridurre a una semplice contrapposizione tra chi parte e chi arriva. La retorica dell’“Italia che emigra” e dell’“Italia che accoglie” è superata dai fatti. Come ha ricordato Monsignor Giancarlo Perego, presidente della Fondazione Migrantes, oggi l’Italia è un paese di migrazioni plurime: partenze, ritorni, nuove cittadinanze. «Le nostre città si stanno svuotando», ha detto Perego, «ma l’incontro con i nostri connazionali all’estero può rigenerarle. La cultura italiana che vive anche nei musei di New York racconta un’identità dinamica, capace di aprirsi all’interculturalità». È una visione che supera l’idea di un’Italia chiusa su se stessa e invita a ripensare il rapporto con le proprie comunità all’estero.
Tra le priorità indicate dagli interventi c’è anche quella di migliorare la capacità istituzionale di ascoltare e comprendere queste comunità. Christian Di Sanzo, deputato eletto nella ripartizione Nord e Centro America, ha definito il Rapporto «uno strumento fondamentale per orientare le politiche pubbliche, per leggere i flussi migratori e per costruire una base solida da cui partire nei rapporti con le istituzioni». Di Sanzo conosce bene la realtà della nuova emigrazione: vent’anni fa ha lasciato anche lui l’Italia per gli Stati Uniti, e oggi rappresenta in Parlamento quella stessa comunità di cui è stato parte. Secondo lui, la “nuova emigrazione” non è più un fenomeno temporaneo o emergenziale, ma una realtà strutturale con cui bisogna fare i conti.
In questo quadro, New York rappresenta un osservatorio privilegiato. Qui la comunità italiana non è solo numerosa ma anche strutturata. Non mancano i punti di riferimento, anche spirituali. Don Luigi Portarulo, da due anni responsabile della comunità cattolica italiana della città e promotore dell’evento negli Spazi di Old San Patrick, ha raccontato di come la messa domenicale in italiano sia tornata a essere un momento di aggregazione. «Le persone hanno bisogno di spazi comuni», ha spiegato. «La nostra chiesa è tornata a essere, come è sempre stata nella storia dell’emigrazione italiana, un luogo dove si costruiscono legami sociali prima ancora che religiosi». Ogni domenica, a mezzogiorno, si celebra la messa in italiano nella chiesa di Mott Street, frequentata da famiglie giovani e da italiani arrivati da poco, in cerca di un punto fermo in una città che corre veloce.
Nonostante la coesione della comunità italiana a New York, restano le sfide legate all’accesso ai servizi consolari e alla rappresentanza politica. Lo ha spiegato Silvana Mangione, vice segretaria generale del CGIE per i paesi extra europei, che ha ricordato il ruolo strategico delle comunità italiane negli Stati Uniti, in Canada, in Australia e in Sudafrica. Sono comunità, ha detto, «fondamentali per il sistema Italia», ma anche «complesse, articolate, che dobbiamo ancora imparare a leggere fino in fondo». Mangione ha lavorato per anni per dare agli italiani all’estero la possibilità di votare, e non ha nascosto che il percorso è stato «accidentato, perfino meraviglioso», ma ancora oggi si scontra con «una complessità assoluta».
Il tema della cittadinanza resta uno dei nodi centrali. Da un lato ci sono i figli di immigrati nati in Italia che non hanno diritto alla cittadinanza automatica, dall’altro ci sono gli italodiscendenti che, in tutto il mondo, cercano di riottenere la cittadinanza italiana attraverso lo ius sanguinis, spesso affrontando lunghe attese e trafile burocratiche. Il Rapporto 2024 fotografa una realtà in cui l’identità italiana è vissuta e rivendicata anche da chi non è formalmente cittadino.
Anche il Consolato Generale d’Italia a New York si trova a gestire questa realtà in continua evoluzione. Fabrizio Di Michele ha parlato di un lavoro quotidiano che punta a superare i pregiudizi e a basarsi sui fatti. «Guardare ai numeri ci aiuta a capire», ha detto. «Ci consente di essere più presenti e di erogare meglio i servizi». Il ruolo dei patronati, delle associazioni e della rete ecclesiastica diventa in questo senso fondamentale per costruire un sistema di supporto capace di intercettare i bisogni, a partire dai servizi di base fino alla promozione culturale.
Dall’incontro di New York emerge un’immagine dell’Italia migrante che è tutt’altro che nostalgica o ripiegata su se stessa. È un’Italia che cambia pelle, che si ridefinisce all’estero e che potrebbe, se riconosciuta e valorizzata, contribuire a rigenerare anche il Paese che si è lasciata alle spalle.