Vengono sempre tirati in ballo i padri, per eccesso o per difetto, specie nei femminicidi. Nel primo caso dito puntato contro il patriarcato, nel secondo, quello più moderno ovvero l’assenza del padre, dito puntato contro la mancata educazione morale.
Se ai figli non si insegna il “No”, anche le relazioni sentimentali e sessuali ne risentono. Magari uno pensa che il corpo e la vita dell’Altro siano una proprietà dove non è ammesso il rifiuto. Rifiuto che si può pagare con la morte.
A questi schemi non è sfuggito uno dei femminicidi che più hanno fatto discutere negli ultimi tempi in Italia, quello di Giulia Cecchettin. Il padre della vittima è diventato una sorta di testimone sociale e civile del dolore e della prevenzione dell’orrore; il padre del carnefice, Filippo Turetta, ha riempito le cronache estive con quello che ha detto in carcere al figlio: “non sei il solo, ce ne sono altri duecento in Italia”. Apriti cielo, gogna, condanna, normalizzazione e banalizzazione del delitto, giustificazione del figlio e chi più ne ha più ne metta.
Critiche anche giuste se non fosse che quelle parole sono state intercettate in carcere in un delicato contesto emotivo in cui il padre temeva il suicidio del figlio. Fatte le dovute scuse, ripetiamo che quelle intercettazioni dovevano rimanere private. Sono penalmente irrilevanti e quindi non da pubblicare
Ma dove non arriva la riforma della giustizia, arriva l’intelligenza dell’altro padre che dice: bisogna capirlo e aiutarlo quell’uomo. Chiamatela pietas, esercizio del perdono, tutte cose che ci fanno respirare nella nostra epoca dell’odio, fatto sta che la solidarietà dei padri non per il potere ma per la comprensione è un passo in avanti culturale. In una tragedia infinita dove ognuno si deve prendere le proprie responsabilità senza paura.