No, nessuno ti controllerà i social per viaggiare negli USA

Negli ultimi giorni molti titoli hanno fatto credere che per entrare negli Stati Uniti servirà “passare al setaccio i social degli ultimi cinque anni”: vi spieghiamo perché non è così (almeno per ora)

Da alcuni giorni diversi siti e giornali italiani titolano che gli Stati Uniti “controlleranno i social degli ultimi cinque anni anche ai turisti di qualsiasi nazionalità” prima di concedere l’ingresso nel Paese. In realtà, non esiste alcuna norma definitiva approvata con tale effetto: si tratta di una proposta di modifica alle procedure di ingresso che è ancora in fase di valutazione e non è entrata in vigore.

Negli USA i cittadini di 42 Paesi — tra cui l’Italia — possono entrare per turismo o affari fino a 90 giorni senza visto, utilizzando invece il sistema elettronico di autorizzazione chiamato ESTA (Electronic System for Travel Authorization). Questo sistema richiede attualmente dati anagrafici di base e non obbliga a fornire profili social o cronologie di attività online per la maggior parte dei viaggiatori.

Quello che è stato pubblicato sul Federal Register — la “gazzetta ufficiale” delle amministrazioni federali americane — è una proposta del Dipartimento per la Sicurezza interna e di Customs and Border Protection (CBP) per cambiare il contenuto delle informazioni richieste nella procedura ESTA. Non si tratta dunque dell’unica proposta, e forse neanche di quella più “spigolosa”. Tra le cose, infatti, è stato proposto Tra le modifiche ipotizzate c’è l’aggiunta di:

  • lista degli account social utilizzati negli ultimi cinque anni;
  • numeri di telefono usati negli ultimi cinque anni;
  • indirizzi email degli ultimi dieci anni;
  • dati biometrici (come impronte digitali e iride);
  • nomi e dettagli dei familiari più stretti.

È importante sottolineare che questa rimane una proposta, non una regola. Il testo pubblicato indica che l’amministrazione americana intende aprire un periodo di commento pubblico di circa 60 giorni prima di qualsiasi implementazione definitiva. Solo dopo questo passaggio e dopo eventuali revisioni potrà maturare una norma vincolante.

Quello che non è successo con questa proposta

Questo è una procedura standard per le amministrazioni americane prima di adottare nuove regole che impattano il pubblico. Non è un “decreto immediato” né una “legge già operativa”. Al contrario, serve a raccogliere osservazioni da cittadini, aziende e gruppi di interesse prima di procedere.

La confusione nasce anche dal fatto che dal 2019 esistono già requisiti di disclosure dei social media per alcune categorie di visti non turistici (come visti di lavoro H-1B, studenti o altri visti non immigranti), e in certi casi i consolati americani hanno richiesto di rendere pubblici gli account per verifiche. Nel modulo ESTA, da anni (circa dal 2016-2017, poi formalizzato meglio negli anni successivi) esiste una sezione facoltativa in cui al viaggiatore viene chiesto se vuole indicare i propri account social. Facoltativa vuol dire una cosa molto precisa: puoi lasciarla vuota senza che questo comporti automaticamente un rifiuto dell’ESTA. Non è un requisito obbligatorio, non è una condizione per l’approvazione e non attiva di per sé un controllo sistematico dei profili. È una raccolta dati potenziale, non un obbligo né un’azione automatica. Queste regole non sono nuove e non implicano un controllo automatico per tutti i visitatori turistici.

Separato dall’ESTA c’è poi il tema dei poteri discrezionali delle autorità di frontiera (CBP). Anche oggi, come dieci o vent’anni fa, un ufficiale può decidere di fare controlli aggiuntivi su una persona specifica (secondary inspection), che possono includere domande sulla presenza online, sul lavoro, sui viaggi precedenti o — in casi particolari — anche uno sguardo ai dispositivi. Questo però non dipende dall’ESTA in sé, non è una procedura standard e non riguarda “tutti”, ma singoli casi motivati.

Le principali agenzie di stampa internazionali che hanno riportato la notizia — da Reuters a El País — sottolineano che si tratta di un piano dell’amministrazione Trump attualmente in consultazione, non di una misura già attiva.

Anche operatori del settore turistico e associazioni come la US Travel Association hanno osservato che l’idea, se resa obbligatoria, potrebbe avere effetti negativi sul flusso di visitatori, specie in vista di eventi internazionali come i Mondiali di calcio del 2026 negli Stati Uniti, Canada e Messico, attesi da centinaia di migliaia di tifosi.

Ma allora perché molti giornali italiani hanno lanciato l’allarme già da subito? La ragione è molto semplice: il titolo allarmistico funziona meglio del contesto, in Italia ancora di più. Dire che “gli USA controlleranno i social a tutti i turisti” produce paura immediata, coinvolge chi viaggia, chi ha figli all’estero, chi “ha qualcosa da nascondere”, e spinge al clic. Spiegare che si tratta di una proposta amministrativa, soggetta a consultazione pubblica e con tempi lunghi, richiede spazio, precisione e soprattutto non genera traffico sui siti

Il clickbait, ovvero indurre al click tramite un titolo accattivante ma fondamentalmente falso, in Italia è diventato la norma per una combinazione strutturale di fattori: c’entra il crollo delle vendite cartacee, ma anche la pubblicità online che paga pochissimo e le redazioni ridotte sulle quali viene fatta tantissima pressione per aumentare gli accessi ai siti e alle notizie pubblicate

Nel caso specifico degli Stati Uniti, poi, entra in gioco anche un altro elemento: l’America è un Paese percepito come lontano, opaco, burocraticamente incomprensibile e politicamente polarizzante. Questo rende più facile raccontare qualunque proposta come una decisione già presa, e qualunque iter come un atto di forza. Il risultato è una distorsione sistematica: una modifica tecnica e spesso superflua diventa “una stretta”, le bozze e le proposte diventano “nuove regole”, le ipotesi lontane diventano “da oggi”. E l’America si fa sempre più lontana

In sintesi: non è stato approvato nulla che imponga controlli sui social ai turisti stranieri prima di partire per gli USA. La misura è proposta, parte di una revisione più ampia delle procedure di controllo dei visitatori, e deve ancora essere sottoposta a commento pubblico e approvazione formale prima di diventare obbligatoria — se mai lo sarà.

Immagine di Francesco Caroli

Francesco Caroli

Francesco Caroli, nato a Taranto, ha iniziato a scrivere di musica e cultura per blog e testate online nel 2017. È autore per le riviste cartacee musicali L'Olifante e SMMAG! e caporedattore per IlNewyorkese. Nel 2023 ha pubblicato il saggio "Il mutamento delle subculture, dai teddy boy alla scena trap" per la casa editrice milanese Meltemi.

Condividi questo articolo sui Social

Facebook
WhatsApp
LinkedIn
Twitter

Post Correlati

Ritorna il camping di lusso Governors Island

Se stai cercando una fuga perfetta dalla frenesia della città senza allontanarti troppo, Governors Island potrebbe essere la tua destinazione ideale. E se desideri trasformare questa breve fuga in un’esperienza indimenticabile, Collective Retreats è pronto ad accoglierti con le sue

Leggi Tutto »

Primavera, la musica che diventa libertà

La libertà. È questo il tema centrale di Primavera, il primo film di Damiano Michieletto, liberamente tratto dal romanzo Stabat Mater di Tiziano Scarpa (Premio Strega 2009) presentato ieri a Roma. L’opera, che arriverà nelle sale italiane il 25 dicembre

Leggi Tutto »
Torna in alto