Misoginia e donne nel rap, ripensiamone il ruolo

Il rap è diventato cultura di massa: musicalmente ha soppiantato l'egemonia del rock già dagli inizi del Duemila, culturalmente cresce nuove generazioni che vengono costantemente esposte ai temi che narra ed al linguaggio che usa; ecco perché ne parliamo

Non è semplice indicare il momento preciso in cui è successo, ma quel che è certo è che dagli anni Ottanta agli anni Novanta, la rappresentazione delle donne all’interno della cultura hip-hop e, soprattutto, nel rap – che dell’hip-hop è una delle “quattro discipline”, insieme al writing, la breakdance e il djing – è cambiata drasticamente in negativo. Chiunque abbia bazzicato nei primi block party degli anni Ottanta, prima, e nelle sale da ballo verso la fine del decennio, dopo, si ricorderà il momento in cui dal palco qualcuno urlava “all the ladies in the room, say ooh-ooh“, seguito poi dalla stessa richiesta rivolta agli uomini, in questo preciso ordine. Erano le cosiddette fly-girls: nella prima scena hip-hop erano parte attiva della cultura, celebrate in ogni party, e lo stesso aggettivo “fly” era uno slang per indicare la ragazza fiera, curata, vestita benissimo e indipendente che si muoveva sulla pista da ballo con sicurezza.

L’immagine delle fly-girl, tuttavia, venne man mano sostituita da uno sguardo sempre più aggressivo e degradante, che culminò con l’ascesa del gangsta rap, il sottogenere che più di tutti rese il rap noto al grande pubblico: è qui che hanno mosso i primi passi Dr. Dre, Tupac, Notorious B.I.G. – insomma, tutti i nomi “grandi” e storici del rap. Ma è sempre qui che la figura della donna ha iniziato a divenire sempre più maltrattata, degradata, insultata e oggettivizzata.

Il pubblico durante un’esibizione dei 2 Live Crew a Miami, in Florida, in un’immagine conservata nella collezione del National Museum of African American History and Culture (1986 circa) | Credits: Al Pareira, NMAAHC

Quando uscì Doggystyle, l’album d’esordio di Snoop Dogg e ancora oggi uno dei personaggi più di spicco del rap, tra il 1993 e il 1994, persino la comunità nera che fino ad allora era stata la vera culla dell’hip-hop reagì con furenti proteste senza precedenti. Il National Congress of Black Women avviò picchetti e campagne pubbliche denunciando testi che equiparavano le donne a oggetti sessuali o vittime di violenza ed il messaggio era inequivocabile: quelle parole non erano più tollerabili.

Le pressioni portarono diverse stazioni radio, da New York a Los Angeles, a limitare o vietare la diffusione di brani ritenuti misogini. Per molti osservatori, il linguaggio del rap stava scivolando verso un automatismo: ogni donna era una “bitch”, ogni relazione un terreno di possesso. Allo stesso tempo, però, la critica interna alla comunità afroamericana era complessa. Ogni contestazione esterna alla propria espressione culturale ed ogni attacco ai propri esponenti veniva percepito come frutto di un complotto razzista, e questo rendeva difficile affrontare in modo lucido la questione del sessismo. Il caso Tyson–Washington fu emblematico: quando il pugile venne accusato e condannato per lo stupro di Desiree Washington (anch’essa nera), parte dei leader comunitari difesero il pugile, ignorando la dimensione di genere del caso, e arrivarono a criticare la stessa Washington per aver collaborato con il sistema bianco.

Allo stesso tempo, comunque, il gangsta rap rifletteva una condizione reale. Quartieri segnati da violenza, droga e marginalità producevano narrazioni dure, dove la rabbia prevaleva sulla celebrazione. Per molti rapper, quei testi erano un’espressione cruda di sopravvivenza più che una costruzione ideologica. La giornalista e scrittrice Joan Morgan, nel suo When Chickenheads Come Home to Roost, descrisse i rapper degli anni Novanta come uomini che cercavano di amare e vivere in un contesto percepito come una “zona di guerra”. Una dimensione emotiva che spiegava, senza giustificare, la tendenza a proiettare frustrazioni e dolore sulle figure femminili.

Questo è evidente nella maggior parte dei testi di quegli anni, anche dei dischi più di spicco. In Ready to Die, disco d’esordio di Notorious B.I.G. e unico pubblicato mentre il rapper era ancora in vita, lo stesso artista raccontava la depressione, la paura e la violenza interiorizzata e i rispettivi intrecci con l’estetica del gangsta rap. Il disco parla dell’ascesa e la caduta di un giovane nero tra criminalità, disagio familiare e disperazione, infarcita da una costante oggettivazione delle donne. È un universo narrativo dove le donne venivano rappresentate come accessori sessuali, complici di attività criminali o strumenti per costruire lo status del rapper. L’amore stesso, se di amore si può parlare, quando raccontato era filtrato da dinamiche violente o di potere.

Il Bronx negli anni Ottanta nella mostra “In the South Bronx of America” | Credits: Mel Rosenthal

Una ricerca condotta tra il 1987 e il 1993 mostrò la portata del fenomeno: su 490 brani analizzati, oltre un quinto conteneva riferimenti violenti contro le donne, tra aggressioni fisiche, stupri e omicidi. Un dato che testimonia come la misoginia fosse diventata componente strutturale del genere. Parte della responsabilità, in ogni caso, era attribuita anche all’industria musicale: etichette discografiche e produttori incoraggiavano l’inserimento di contenuti estremi, premiavano la spettacolarizzazione della violenza e spingevano gli artisti verso personaggi iper-mascolini e iper-violenti, perché ciò garantiva vendite.

A metà anni Novanta alcuni artisti, compresi i pionieri stessi del genere, presero le distanze dal gangsta rap, contribuendo temporaneamente a un ripensamento: Dr. Dre disse che il gangsta rap aveva fatto il suo corso e la Death Raw Records, l’etichetta di punta del genere, stracciò i contratti di tutti gli artisti del proprio roster. Sembrava un cambio di passo, l’alba di un nuovo giorno nel movimento rap. E spianò la strada all’uscita solista di Lauryn Hill (ex Fugees), che con The Miseducation of Lauryn Hill si aggiudicò cinque Grammy Awards in una sola serata, prima donna al mondo, portando al centro del rap sensibilità, introspezione e visione femminile.

Lauryn Hill alla O2 di Londra nel 2024 | via Shutterstock

Questa parentesi, purtroppo, durò poco. L’arrivo di Eminem, prima con The Slim Shady LP e poi con Marshall Mathers LP, riportò il focus su un immaginario fortemente controverso e misogino, rilanciando nuovamente l’estetica del gangsta rap sotto altre forme e con un pubblico ancora più vasto all’inizio del nuovo millennio.

Negli anni Duemila le artiste iniziarono a confrontarsi con quello stesso immaginario, spesso incorporandolo per ribaltarlo o sfruttarlo economicamente. Personaggi come Nicki Minaj, Cardi B e altre star dell’hip-hop femminile hanno costruito la propria identità pubblica su figure di donne ipersessualizzate ma autonome, rivendicando in chiave femminista termini come “bitch” e “hoe”. È una traiettoria che ha aperto un dibattito complesso: da un lato, la riappropriazione della propria sessualità viene letta ed interpretata come emancipazione; dall’altro, il ricorso a stereotipi iper-sessualizzati perpetua indubbiamente modelli che rafforzano la violenza simbolica sulle donne, sia dentro che fuori l’industria musicale.

Secondo Joan Morgan, limitarsi a criticare i rapper non basta: occorre interrogare anche il contesto culturale che alimenta questi modelli, comprese le figure femminili che li riproducono o li sfruttano. Perché gli immaginari sessisti dell’hip-hop – al maschile e al femminile – continuano a influenzare la percezione delle donne e a ostacolare una rappresentazione piena, libera e non violenta nel panorama culturale contemporaneo.

Immagine di Francesco Caroli

Francesco Caroli

Francesco Caroli, nato a Taranto, ha iniziato a scrivere di musica e cultura per blog e testate online nel 2017. È autore per le riviste cartacee musicali L'Olifante e SMMAG! e caporedattore per IlNewyorkese. Nel 2023 ha pubblicato il saggio "Il mutamento delle subculture, dai teddy boy alla scena trap" per la casa editrice milanese Meltemi.

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