New York città sostenibile? La prima tappa dello Study tour di Federmanager Academy

“Non aspettatevi che New York oggi sia solo quella della percezione classica, ovvero turismo e finanza”.

Con queste parole il Console generale a New York, dott. Fabrizio Di Michele, ha accolto il gruppo di una cinquantina di manager, portati col Twin Revolution Program di Federmanager Academy, e col supporto di 4.Manager, nella Grande Mela e poi a San Francisco. Sulla prima di quelle due rivoluzioni gemelle, il Console ha citato come esempio un gruppo di progetti sul digitale più avanzato, portati avanti dalla Cornell University, che si affianca all’elaborazione di altri grandi atenei, come New York University, Columbia, Fordham, o a grandi corporations come IBM, che ci ha offerto due lezioni di grande livello. New York, del resto, è talmente ricca e grande che in ogni ambito, si potrebbe dire, si trova quel capitale cognitivo che oggi muove il mondo.

Se parliamo dell’altra rivoluzione gemella, la Sostenibilità (la prima è ovviamente la Digitalizzazione), le cose si fanno più complesse. Seguendo il famoso acronimo ESG che si riferisce al versante ambientale (Environmental), Sociale e di Governance, possiamo dire che New York ha da un lato alcune sperimentazioni all’avanguardia nel mondo per la riduzione dei consumi o per le rinnovabili, ma dall’altro una serie di sprechi e consumi impressionanti, che si vedono anche dalla raccolta differenziata, molto in ritardo rispetto a quanto si vede in Italia.

Sul versante Sociale, a fianco di esperienze molto avanzate sul terreno dei diritti e dell’inclusione delle forme di diversità, come quelle descritte nei padiglioni della Ford Foundation, vi è una raffigurazione plastica dell’esclusione di tanti cittadini o semplici esseri umani approdati negli USA (che, va ricordato, non hanno una dignità inferiore) con gli homeless o altre persone che vagano in una dimensione di esclusione qualche volta voluta, molto più spesso indotta da un sistema che non lascia tregua a chi una volta è caduto, o a chi ha avuto un’esistenza segnata dal dolore fin dall’infanzia, con traumi dovuti alla violenza o, quantomeno, all’assenza di quella educazione che deve aiutare a restare su una relazionalità sociale accettabile. Il discorso è molto complesso, e qui ci limitiamo a dire che New York, metropoli con una cultura civica molto avanzata, può e deve fare di più, garantendo un’assistenza di base (spesso assente) e spingendo verso percorsi di responsabilizzazione e recupero attivo.

Su questo piano, e associando le policy sia ambientali che sociali, un grande manager come Mauro Porcini, Chief Innovation Designer di PepsiCo, ci ha fatto capire l’importanza delle intuizioni che aprono un dialogo con consumatori e altri stakeholders. I risultati straordinari della sua azienda sono dovuti anche al fatto che, da molti anni, Pepsi ha una politica tutta ispirata alla Sostenibilità: prodotti con meno zucchero, campagne di sensibilizzazione alimentare, assunzioni anche per persone di categorie fragili …. Anche per questo Porcini ha ricevuto da Reputation Research e Federmanager Academy il Reputation Award, ed è stato significativo il racconto della realtà che ci ha ospitato: il professor Fabio Finotti, docente in Columbia e Direttore dell’Istituto Italiano di Cultura, con alcuni spunti ha fatto capire come l’aspetto culturale sia un driver decisivo per promuovere la reputation di un intero Paese. Se in quella sede si respira un senso di raffinatezza italiana ma anche l’essere inseriti nel flusso delle dinamiche globali, è soprattutto per l’approccio garbato e insieme appassionato del Direttore di questa realtà che si offre a tutta la città di New York.

Il terzo elemento dell’acronimo da cui siamo partiti è la G di Governance, e qui abbiamo registrato almeno due elementi molto positivi. La professoressa Mascia Ferrari e il full professor Kose John, della New York University (la seconda è Visiting da un quindicennio, per le ricerche che conduce fra le sponde dell’Atlantico), ci hanno fatto capire molte cose, ma soprattutto la diversa ragione di base, che, negli Stati Uniti, fa crescere una cultura della Sostenibilità, soprattutto a livello finanziario e di disclosure delle informazioni su un’azienda. Se da noi la Sostenibilità da molte aziende è “subita” come fonte di ulteriori normative e vincoli, negli Usa è “scelta” in vista del mercato. Se in Italia la Sostenibilità viene vista come rendicontazione “dovuta” per le fonti normative UE e nazionali, in America lo si fa per convincere investitori e anche i migliori talenti a scommettere su una certa azienda, che vede la trasparenza della propria situazione come elemento di valore da offrire, in una cultura positiva della disclosure (si pensi, in Italia, quanta ritrosia a rivelare il proprio assetto interno …).

Infine, un caso di Sostenibilità voluta e applicata non solo sul conto economico, ma anche sugli investimenti pluriennali e perfino sull’idea di competitività di un sistema: l’NBA, lo straordinario mondo del basket che ci è stato spiegato dall’interno da Matteo Zuretti, uno dei top manager dell’associazione dei giocatori (NBPA). La nostra domanda è stata: come fa uno sport in cui gli atleti vengono pagati in media 10 mln $ l’anno, e che in quello stesso arco temporale “muove” nel complesso 10 mld $, a restare sostenibile? E come evitare che nasca una rincorsa salariale continua al rialzo, e che le squadre più forti non diventino, come col calcio in Europa, sempre più forti? Si può se si accettano regole di autolimitazione decise fra giocatori e proprietari delle squadre, per cui ai giocatori vanno il 51% degli introiti (ma non di più), si fa un salary cap deciso dalle singole società e condiviso fra le superstar e gli altri giocatori, e con un sorteggio che dà le possibilità di prendere i migliori talenti che entrano nell’NBA facendo scegliere prima di tutto le squadre che nel campionato appena concluso sono arrivate agli ultimi posti. Questa ultima linea guida non è benevolenza verso le squadre deboli, ma è dovuta alla volontà di avere una NBA il più possibile competitiva e con il successo aperto a tante squadre, magari di stati periferici come l’Oklahoma o la Lousiana.

Questo è in antitesi al modello del calcio europeo, accentrato su poche squadre vincenti e situate nelle grandi città, come è in antitesi ad esso la cultura della concertazione che si autolimita negli investimenti in giocatori e grandi impianti, per evitare crack che in decenni passati si erano registrati. E anche qui, in controtendenza c’è una cultura della disclosure, prima alleata della Sostenibilità dei bilanci delle squadre e di una cultura che punta a una competitività sana (la logica di una priorità di scelta di cui dicevamo poco fa). Il basket che si gioca a New York, infine, può essere utilizzato come metafora per un ultimo aspetto. Senza mancare di rispetto alla squadra NBA che gioca a Brooklyn (i Nets), possiamo dire che i Knicks tornati grandi sono l’emblema di una squadra che ha una sola superstar (Jalen Brunson), ma vince lavorando duro e sudando tanto in difesa. New York è una città con tante stelle, ma “è nata sulle strade”, come diceva il claim di un famoso film. New York è nata su una base fatta di violenza, ma ancor prima e ancor più su strade in cui si vede lavoro, tanta fatica, tanto lavoro.

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Federico Mioni

Direttore di Federmanager Academy e docente nei Master di IULM e Università Cattolica.

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