Credo che il vero scrittore oggi non sia chi sta per conto suo. Non credo nemmeno sia chi sbandiera parole al vento per nulla, se è per questo. Agli scrittori silenziosi, non egoisticamente pubblici, porto grande rispetto, quando nel loro silenzio, fanno riecheggiare versi che diventano tuoni. Non c’è bisogno di mostrarsi per esserci. È proprio in questa presenza, lontana dalla vanità, che si conserva puro, lo spirito libero di chi compone; è in questa necessità di stare sulla soglia, di sentire il tempo che cambia, di percepire tra il rumore assordante del mondo, cosa può essere colto per diventare frutto. In quel rumore, chi vive tra le luci di questa città che è New York, si riconosce inevitabilmente.
Non siamo scrittori—non tutti, perlomeno—ma siamo di certo il risultato di quel suono che anche noi, senza velleità artistiche, abbiamo saputo cogliere, di quella scelta che abbiamo saputo fare. Non è forse anche questa scrittura? Sono orgogliosa di essere un’expat, perché in qualche modo anch’io, anche noi, siamo sulla soglia, siamo inevitabilmente vulnerabili: dobbiamo esserlo. Anche se a volta ci pesa, questo nostro vivere tra qui e lì, è un privilegio, perché ci consente di evitare quella miopia che troppo spesso tiene a terra chi si rintana nella paura, talvolta, nell’odio.
Credo nello scrivere che diventa corpo, nella penna che diventa mano. Sognando di stare qui, su questa terra di confine che una volta era la ‘Merica, hanno fantasticato in tanti, e in tanti, ancora sognanti, hanno continuato a farlo nei café del West Village, sulle panchine del Lower East Side, su qualche molo che assorbe quel mare che riporta a casa. Allora forse aveva davvero ragione Fitzgerald quando diceva che New York non è di chi ci è nato ma di chi l’ha sognata più forte, lottando per arrivarci. E per arrivarci, bisogna mettersi sulla soglia.
Quante New York abbiamo letto? Quante, chissà, ne abbiamo scritte. Appassionato d’America, Cesare Pavese scrisse che ‘l’America è il gigantesco teatro dove con maggiore franchezza che altrove veniva recitato il dramma di tutti’. Era l’anticipo degli anni ’60, erano un’Italia e un’America molto diverse, eppure quel senso che qui, più che in qualunque altro posto al mondo, si consumi il dramma di tutti, è ancora forte. Lo è per noi che in quell’American Dream ci viviamo, nelle mille sfumature che comporta; lo è per chi oltreoceano lo vede in tv, lo legge nei post di qualche amico o parente emigrato. Di quale dramma parliamo però, oggi? A volte penso che sia il dramma di una pièce globale, dove è necessario riscrivere una morantiana Storia che sia davvero nuova e diversa per tutti, sfiorando forse quelle punte di utopia—o distopia—che spesso appartengono a chi immagina, senza sapere davvero. Altre volte, guardando un senzatetto per strada, un vecchio invisibile seduto al bordo di una strada, un bambino che vende cioccolata in metropolitana, penso che quel dramma da riscrivere parta da molto più vicino.
Non so se c’è davvero una risposta—forse ce ne sono molte—ma so che se quella risposta c’è, se quel dramma contemporaneo ancora ci appartiene, e se ancora si scrive qui, in ‘Merica, va cercata ancora una volta scrivendo, ognuno a modo suo, e cercando le parole, qualora mancassero, sempre lì: sulla soglia.