Cristian Specogna, classe 1987, è un giovane produttore di vini del Friuli-Venezia Giulia. Nel 2023 è stato nominato miglior giovane vignaiolo italiano di quell’anno, e questo non è un caso. Il lavoro di Cristian è tramandato per tre generazioni, da quando suo nonno ha aperto l’Azienda Agricola Specogna sulle colline di Rocca Bernarda. Da allora ad oggi sono passati sessant’anni, ma su quelle colline la stessa famiglia continua a produrre alcuni dei vini biologici più ricercati d’Italia. In questa intervista, Cristian ci racconta le origini della sua azienda, l’amore per la terra in cui affondano le sue viti e l’impegno sociale che lo coinvolge.
Cristian, raccontami un po’ di te e della tua carriera. Hai preso le redini di qualcosa che tuo nonno ha costruito già negli anni Sessanta.
Esatto! L’avventura della nostra famiglia inizia negli anni Sessanta. Nostro nonno, Leonardo, era originario di una zona montana del Friuli, al confine con la Slovenia, che nel secondo dopoguerra era un territorio per nulla semplice. Come tanti giovani, emigrò per alcuni anni per lavorare in Svizzera, anche lì tempi non semplici. Dopo cinque anni, decise di rientrare. Prima di emigrare non era mai uscito dal suo paese natale, o per meglio dire, era stato solo nelle zone limitrofe. Fu solamente durante il viaggio di ritorno che tornò giù con alcune persone conosciute in Svizzera, in auto, e quindi girò un po’ tutto il resto del Friuli per vedere cosa c’era fuori dal suo mondo. E lì, per la prima volta, passò sulle colline della Rocca Bernarda, a Corno di Rosazzo, che è il luogo dove siamo oggi, e se ne innamorò completamente. Decise di investire i risparmi per comprare un piccolo pezzo di terreno su questo territorio. Su queste colline la pianta della vite viene coltivata da secoli. Anno dopo anno, cominciò a comprendere il potenziale della produzione di vino e a rendere l’azienda sempre più votata alla viticoltura, migliorando i processi produttivi in campagna e in cantina. Questo iter, questo percorso, continuò con nostro padre Graziano, che negli anni Ottanta prese in mano tutto, e oggi siamo, invece, la terza generazione, con mio fratello Michele e me. Il nostro sogno è quello di migliorarci sempre di più e rendere l’azienda non soltanto capace di produrre vini di qualità, ma anche di farla conoscere nel mondo, essere più presenti sui mercati internazionali e comunicare in modo adeguato per far emergere quelle che sono le nostre peculiarità e le potenzialità del territorio.
Siete conosciuti anche per l’approccio biologico. Quali sono i vantaggi e le difficoltà di lavorare con prodotti biologici?
La nostra scelta per il biologico non è stata dettata dalla moda, ma da un’esperienza personale. Fin da piccolo, accompagnavo mio nonno e mio padre in campagna e ho visto come certe pratiche del passato, con l’uso di prodotti chimici, impoverivano il suolo. Vedevi vigne sempre meno in equilibrio, con meno biodiversità. Anno dopo anno si è fatto sempre più forte in noi il sentimento di intraprendere un percorso di viticoltura biologica, con l’idea di creare un ecosistema più in salute e capace di ottenere un equilibrio spontaneo di qualità, in grado di resistere agli estremismi climatici, ai problemi di erosione. Ma come hai detto bene tu, ci sono anche delle difficoltà, delle sfide.
E quali sono?
La gestione di un vigneto biologico richiede una notevole capacità organizzativa. È fondamentale utilizzare solo prodotti naturali e intervenire nei momenti precedenti le piogge, quando il rischio di malattie è maggiore. Spesso, questo implica la necessità di operare nei fine settimana, richiedendo una squadra pronta a rispondere prontamente. Inoltre, è essenziale avere una profonda conoscenza del proprio ambiente, raccogliendo dati climatici e agronomici per ciascun vigneto. Questo approccio “sartoriale” permette di personalizzare i trattamenti per ogni pianta, migliorando la salute delle viti e valorizzandone le qualità. Sebbene l’agricoltura biologica comporti costi iniziali per la formazione e l’adeguamento, nel lungo termine offre vantaggi significativi, come vigneti più salubri e produzioni più elevate, con prezzi di vendita più competitivi in mercati come quelli nordici o canadesi. Infine, è cruciale comunicare efficacemente al mercato e ai consumatori il valore e gli sforzi dietro il biologico, poiché non si può dare per scontato che il semplice passaggio al biologico garantisca vendite superiori.
Una cosa sicuramente da sottolineare è questa collaborazione che si sta attivando con la fondazione Progetto Autismo…
È un progetto che ho a cuore; è un esempio di inclusione sociale e di valorizzazione delle risorse delle persone con disabilità. In poche parole, abbiamo avviato con questo istituto dedicato al supporto di persone con sindrome di Asperger e disturbi dello spettro autistico una serie di collaborazioni dove, inizialmente, avevamo creato un progetto nel quale i ragazzi di questo istituto andavano a dipingere le etichette delle bottiglie dedicate a questa iniziativa. Spesso, le persone con disturbi dello spettro autistico hanno incredibili capacità artistiche, sia nella pittura che nella musica, e quando conobbi questa realtà ho avuto modo di vedere dei laboratori d’arte che portavano avanti, dove ho visto come alcuni ragazzi, senza aver mai visto prima dei quadri, riuscivano a creare delle tele impressionanti che sembravano fatte da artisti professionisti. Da lì è venuta l’idea delle etichette. Oggi vogliamo fare un passo in avanti e dimostrare che queste persone possono essere un valore aggiunto per la comunità, per il territorio e per le imprese che vi operano. Abbiamo iniziato con alcuni ragazzi di questo istituto una serie di stage e tirocini formativi qui in azienda, dove i ragazzi sono venuti quest’anno a raccogliere le uve durante la vendemmia e a seguire le prime fasi di vinificazione, e così proseguirà anche nei prossimi mesi fino all’imbottigliamento. Gran parte del ricavato di queste produzioni va a supportare le iniziative di questo istituto.
Prima hai parlato dell’obiettivo di rendere l’azienda più internazionale. Che mercato c’è all’estero?
La percentuale di esportazione è già piuttosto significativa; oggi vendiamo in quaranta Paesi nel mondo, e questa è una grande soddisfazione, considerando che solamente dieci anni fa eravamo a metà strada. Gli Stati Uniti sono attualmente il nostro primo mercato a livello mondiale. New York, in particolare, è una piazza molto importante per noi, poiché collaboriamo da anni con un importatore che, passo dopo passo, è riuscito a farci entrare nei circuiti che contano nella Grande Mela per quanto riguarda la ristorazione. Puntare sui mercati esteri è per me un aspetto fondamentale: non solo ci permette di ampliare il nostro bacino di clientela e rendere le vendite più solide e strutturate nel tempo, ma ci offre anche l’opportunità di guadagnare visibilità in piazze internazionali come, appunto, New York, aiutandoci a creare un brand più forte e, di conseguenza, un valore aggiunto.