Non è raro che uno studio di architettura italiano inizi a guardare oltre i confini nazionali con un misto di ambizione e curiosità. Lo studio AMAA, per esempio, era un piccolo studio — in termini relativi — fino a due o tre anni fa. Da allora è cresciuto insieme all’attività, espandendo il proprio raggio d’azione e trovando, anche fuori dall’Italia, uno spazio fisico e mentale per continuare a progettare, anche in un contesto come quello americano. Il duo AMAA, composto da Marcello Galiotto e Alessandra Rampazzo, ci sta provando con convinzione, tenendo insieme ricerca, pratica, e una certa idea di architettura che parte dalla provincia per arrivare molto lontano.
«Era da molto tempo che cercavamo di esportare il nostro modo di pensare l’architettura all’estero», racconta Marcello. Il punto di partenza, in questo caso, è stato un invito a esporre alla Biennale di Architettura di Venezia, la penultima, quella curata da Lesley Lokko. Da lì si è innescato un processo: la collaborazione con Paola Giaconia e Marco Brizzi, la decisione di guardarsi intorno, di cercare una città su cui puntare. Berlino, forse. Poi, per caso, è arrivata New York.
«È nata l’occasione di progettare un piccolo negozio di matcha, Sorate, a Sullivan Street, aperto da ragazzi italiani. Sorate, in veneto, significa “calmati”. È un posto piccolo, ma da lì è partito tutto». Poco dopo, AMAA ha raccolto una call di BIG, lo studio di Bjarke Ingels, che apriva alcuni spazi di co-working all’interno della sede a Dumbo, Brooklyn. «Abbiamo deciso di provare. Siamo stati selezionati, e da lì è iniziato un viaggio fatto di andate e ritorni. L’anno scorso abbiamo viaggiato a New York una volta al mese, accompagnati da una nostra collaboratrice partner che ci aiuta a seguire i progetti. È nato così un dialogo con la città».


Il loro approccio è cauto, niente slanci entusiastici sul sogno americano. New York non è (ancora) un terreno di grandi progetti per AMAA, ma una base di lavoro e di contatti, un luogo di ricerca. «Veniamo qui perché è più facile incontrare persone da tutto il mondo. Se vuoi vedere qualcuno dalla Cina, dal Giappone o dall’altra parte del globo, a New York è molto più probabile riuscirci. E poi cercavamo uno spazio in cui lavorare senza telefonate ogni dieci minuti».
Dal punto di vista strettamente progettuale, però, le differenze con l’Italia restano forti, e anche il confronto è ancora in corso. «L’esperienza concreta su progetti americani è ancora limitata», dice Alessandra, «ma quello che notiamo, anche insegnando alla Penn, è che il background americano è molto diverso da quello europeo. C’è meno propensione alla conservazione, meno attenzione al costruito esistente, una visione dei materiali che si discosta dalla nostra».
Per AMAA, l’insegnamento è un pilastro tanto quanto la progettazione. Ed è anche uno dei motivi che li ha portati a stabilirsi, almeno in parte, negli Stati Uniti. «In Italia c’è poca cultura del progettare e insegnare insieme. Chi costruisce è spesso guardato con sospetto in ambito accademico. Negli Stati Uniti questo muro è un po’ più basso», spiega Marcello. Alla Penn, il loro gruppo di lavoro è composto da architetti che progettano e insegnano allo stesso tempo. «È un tipo di crescita che per noi è fondamentale. Anche perché l’interazione con gli studenti è un’enorme fonte di stimoli».
«La carriera accademica e quella professionale, per noi, non sono mai state scisse», aggiunge Alessandra. «Attraverso la professione facciamo ricerca, che è ciò che dovrebbe fare anche l’accademia. Non vediamo una distinzione netta».
Eppure, le difficoltà ci sono, soprattutto quando si parla di costruire. «In Italia costruire è visto male, in accademia soprattutto», precisa Marcello. «Ma anche dal punto di vista professionale, il nostro lavoro si concentra molto sul riuso adattivo, sul recupero. Negli Stati Uniti se ne parla solo da poco. Ora è diventato di moda parlare di adaptive reuse, e iniziano a spuntare i primi progetti di torri che non vengono demolite, ma riconvertite».
Dal loro punto di vista, il ritardo è evidente. «Qui sono molto avanti su tante cose, ma molto indietro su altre. Basta guardare come gettano il calcestruzzo», dice Marcello, che ricorda un cantiere negli Hamptons dove gli operai americani erano «sbigottiti» dalla precisione italiana. «Anche studi importanti come Herzog & de Meuron, che hanno costruito il Public Hotel a New York, si lamentano della qualità esecutiva. Nonostante i budget alti, i dettagli sono inferiori a quelli italiani».

Ma cosa vuol dire, davvero, progettare dall’Italia? Meglio: dalla provincia?
Lo studio AMAA nasce a Venezia, ma affonda le radici in provincia. Arzignano, vicino a Vicenza, è la città di Marcello, e anche la base operativa principale. «La provincia ti dà l’opportunità di modellare le regole. Hai un contatto diretto con la municipalità, con i tecnici. E anche con le persone. In città è tutto più dispersivo. In Veneto, ci si vede, si decide, si parte. Nessuno ha tempo da perdere».
C’è anche un altro aspetto: quello della città diffusa, che nel nordest italiano prende la forma di uno “sprawl” urbano che si estende intorno a corsi d’acqua, strade, capannoni. «È una tela bianca, dove puoi ancora scrivere. Le città storiche, invece, sono testi già scritti: puoi solo correggere qualche parola».
Quando si parla di trasformazioni urbane, viene naturale chiedersi che ruolo abbiano oggi le periferie, così spesso al centro del dibattito architettonico e politico. Ma per AMAA la questione si pone in modo leggermente diverso. «Noi lavoriamo in provincia, non in periferia», precisa Marcello. Ma poi si apre una riflessione più ampia: «Renzo Piano ha fatto un grande lavoro con il G124, e la sua idea di riattivare piccole porzioni di città attraverso interventi urbani è assolutamente condivisibile. Allo stesso tempo, serve una riqualificazione puntuale degli edifici. Lacaton & Vassal lo fanno benissimo: invece di demolire, migliorano quello che già esiste, con interventi intelligenti e precisi».
Alessandra aggiunge che «serve una strategia urbana. Anche piccoli interventi possono avere un grande impatto, se fanno parte di un piano. Le occasioni isolate, da sole, non cambiano il sistema».
Alla fine, quando gli si chiede se ci sia qualcosa da “importare” dall’esperienza americana o da “esportare” di quella italiana, Marcello è sicuro. «Dall’Italia porterei qui la nostra sensibilità per i dettagli, la materia, l’innesto urbano. Qui prevale l’effetto wow. L’architettura americana è più focalizzata sull’oggetto: la torre, il museo, il landmark. Manca spesso la lettura del contesto». E dall’America? «Lì c’è una libertà che noi non abbiamo. Noi siamo ingabbiati da vincoli e norme, eppure abbiamo scoperto – proprio grazie alla provincia – che si può lavorare anche nelle zone grigie. Non significa evadere la legge, ma saperla interpretare».
Alessandra chiude il cerchio con una riflessione che torna sul valore della ricerca: «Non è una questione di fare quello che si vuole. Ma di cercare soluzioni nuove, più libere, che vadano oltre i canoni consolidati. Senza negare la stratificazione e la storia delle nostre città. Ma provando ad alzare l’asticella ogni volta».