Riso Acquerello è un’eccellenza italiana famosa in tutto il mondo. Lo chef più stellato al mondo, Alain Ducasse, ha definito Acquerello “la Rolls Royce del riso”; il noto chef svedese Fredy Girardet l’ha definito “l’anima del Carnaroli”, sottolineando che “fa parte degli ultimi prodotti autentici”, mentre il noto chef italiano Gianfranco Vissani ha detto che “tocca livelli che di più uno chef non potrebbe sognare”.
Piero Rondolino, l’inventore del riso Acquerello, è il protagonista della nuova puntata di “Ritratti”, il podcast de ilNewyorkese condotto da Claudio Brachino. Rondolino racconta la storia familiare, l’importanza del territorio e le intuizioni, che però lui preferisce definire «scelte razionali», che hanno reso il suo riso unico e, in quanto tale, apprezzato in tutto il mondo, anche negli Stati Uniti.
La famiglia Rondolino si occupa di risicoltura dal 1935, quando Cesare Rondolino ha acquistato la Tenuta Colombara: «Cesare era mio papà, un uomo che voleva fare l’agricoltore ma aveva capito che la risicoltura avrebbe avuto un futuro più solido perché dipende dall’acqua, che non è disponibile ovunque. Perciò aveva previsto che il riso sarebbe rimasto un prodotto solido e redditizio nel tempo».
La visione di papà Cesare è stata tramandata ai figli Piero e Michele, che hanno scelto di continuare e innovare insieme l’attività di risicoltura. Per Piero, tuttavia, è stata una scelta non scontata, perché negli anni ‘70 le sue passioni e i suoi studi lo avrebbero potuto portare lontano dalle risaie: «Io volevo fare l’architetto. Mi ero laureato con Carlo Mollino e desideravo andare a studiare in America o Giappone, ispirato da Frank Lloyd Wright. Mio padre però voleva che io e mio fratello Michele lavorassimo insieme, così iniziai a fare il risicoltore».
La Tenuta Colombara, un luogo unico nel suo genere, dove storia, natura e cultura del riso si fondono, ha rappresentato da subito, dal punto di vista logistico, l’ambiente ideale per la coltivazione del riso: la pianura di Vercelli, d’altronde, è una zona storicamente votata alla coltivazione del riso. Ed è qui che il riso Acquerello viene coltivato nel pieno rispetto dell’ambiente: durante la coltivazione l’acqua è mantenuta sempre alta, e questo consente di mantenere, nei 200 ettari coltivati, un ecosistema delicato che ospita la fauna tipica della risaia, dai volatili acquatici, come gli splendidi aironi, alle rondini, le libellule e le rane.
«La coltivazione del riso è particolare perché si fa in sommersione, servono terreni argillosi che trattengano l’acqua proveniente dalle montagne. Qui abbiamo una posizione di privilegio in tal senso: quando da noi in Piemonte piove, in Val d’Aosta nevica e, dopo una settimana, diventa acqua, quindi abbiamo la tranquillità di avere l’acqua per tutta la coltivazione del riso».
L’acqua alla base e al centro di tutto, dunque: la condizione necessaria per la coltivazione del riso, e per 20 anni il lavoro di Piero è stato proprio quello di controllare il livello dell’acqua nella risaia di famiglia. È per questo che, quando nel 1991 è passato al livello successivo e ha inventato il suo brand, non ha avuto dubbi sul nome: «Il lavoro che io ho fatto dal 70 fino all’inizio degli anni 90 era quello di controllare il livello dell’acqua in risaia, che è fondamentale: se ce n’è troppa il riso cresce male, se ce n’è troppo poca cresce troppo poco. Quindi io mi occupavo dell’operazione più determinante della catena produttiva di riso e quando si è trattato di scegliere un nome ne ho scelto uno che avesse la radice dell’acqua. È stata quindi una “ragione istintiva”, chiamiamola così».
Nel 1991 è nato così il Riso Acquerello, e la scelta della monocoltura Carnaroli è legata alla cultura gastronomica italiana: in Italia, soprattutto al nord, il piatto simbolo è il risotto.
«Abbiamo scelto di coltivare un riso che assorbisse bene tutti i sapori diversi che possiamo mettere nel risotto e quindi una varietà, il Carnaroli, che poi noi abbiamo evoluto. L’abbiamo dovuta evolvere perché, anche se allora era poco diffusa era evidente che, essendo la migliore, avrebbe preso grande diffusione; quindi abbiamo subito voluto aggiungere un qualcosa che ci contraddistinguesse per riuscire a farci conoscere, e quel qualcosa è stato l’invecchiamento del risone, quando è ancora dentro il silos (non quando è bianco) che gli dà la tenuta in cottura e la capacità di assorbire i sapori, che è una cosa molto importante nel risotto. Quindi il nostro è un Carnaroli, la varietà più adatta, migliorata con l’invecchiamento».
Un riso unico anche nel confezionamento: confezionato in lattina e pressurizzato con azoto, il che garantisce una conservazione migliore rispetto al sottovuoto. «Una scelta che, a mio parere, è più razionale che intuitiva».
La sua unicità e la sua qualità hanno reso Riso Acquerello un brand di prestigio, un’eccellenza italiana conosciuta e distribuita in tutto il mondo: «L’America è certamente il paese dove vendiamo di più, ma solo perché è grande. In proporzione alla popolazione, vendiamo molto di più in paesi piccoli. C’è una sostanziale differenza tra la distribuzione in Italia e quella all’estero, soprattutto negli Stati Uniti: in Italia la nostra distribuzione arriva ai negozi e ai ristoranti. Negli Stati Uniti la distribuzione è complicata perché manca il sistema italiano dei negozi. Probabilmente il futuro sarà il web, ma attualmente il ristorante all’estero è molto più importante che in Italia».
Di padre in figlio, la natura familiare dell’azienda non è mai mutata: un’identità ben precisa, che Piero spera possa rimanere inalterata anche nelle prossime generazioni. «La chiave per noi è crescere lentamente, dando tempo ai valori di passare da una generazione all’altra. Non ci affidiamo a manager esterni, puntiamo a mantenere una crescita controllata, sostenibile. Io spero che i miei figli e nipoti proseguano in questa direzione, evitando compromessi».
Tutto nella catena produttiva e distributiva dell’azienda è gestito da risorse familiari: «Oggi con me lavorano mia moglie Maria Nava, che si occupa della parte commerciale, mio figlio maggiore Rinaldo che segue la produzione, e i miei altri due figli, Umberto e Anna, impegnati nella comunicazione, un aspetto oggi fondamentale».
La visione di Piero è sempre stata chiara e continua ad esserlo anche guardando al futuro: «Il mio sogno è formare i nostri dipendenti, circa due dozzine, prevalentemente donne, perché possano sostenere i miei figli e nipoti. Facciamo tutto internamente, dalla produzione alla comunicazione, e vogliamo mantenere questa indipendenza. Questo per me è il futuro».