Francesco Rizzo Marullo è un avvocato Cassazionista italiano, nel 2009 si è trasferito negli Stati Uniti, dove ha conseguito un master (LLM) in fiscalità internazionale presso l’Università della Florida. Da allora non ha più lascito gli Stati Uniti e da Boston, dove vive e lavora, ha diviso la propria attività professionale tra la consulenza fiscale e l’assistenza agli enti del terzo settore. Presente nel board di molte associazioni e fondazioni, ricopre, tra l’altro, il ruolo di Chairman presso l’UNWCAO, un ONG presso le Nazioni Unite a New York. Da un paio d’anni si occupa di immigration law aiutando molti cittadini stranieri, in particolare statunitensi, ad ottenere la cittadinanza italiana.
Con l’avvocato Rizzo Marullo abbiamo approfondito la questione della cittadinanza italiana iure sanguinis, ovvero per derivazione di sangue, che negli ultimi mesi ha affrontato un cambiamento nelle regole e nelle interpretazioni che ne danno i giudici per il riconoscimento.
Buongiorno, Avvocato. Negli ultimi mesi, il tema della cittadinanza italiana per derivazione di sangue (c.d. iure sanguinis) è diventato centrale, anche a causa di nuove regole e interpretazioni. Qual è la situazione attuale?
La situazione è complicata. Con due recenti sentenze della Cassazione e la circolare ministeriale di ottobre 2024, migliaia di richieste di cittadinanza rischiano di essere respinte. La mole di esse la esplica benissimo un’indagine statistica realizzata dall’Associazione Nazionale Uffici di Stato Civile e d’Anagrafe (ANUSCA) in collaborazione con l’Istat su oltre 5.000 comuni italiani, dove si evince che le richieste sono raddoppiate nel triennio 2021/2023, passando da ventimila a quasi cinquantamila. Secondo l’ISTAT, se a ciò si aggiungono i dati degli enti locali che non hanno partecipato all’indagine e le richieste effettuate tramite consolato arriviamo tranquillamente, per il solo 2023, a più di 190 mila richieste.
Cosa ha generato questa situazione?
Tutto nasce, come dicevo, da due sentenze della Iª Sezione della Corte di Cassazione, (rispettivamente la n. 17161/2023 e 454/2024) e dalla circolare dell’ottobre scorso n. 43347 del Ministero dell’Interno, emanata in applicazione delle nuove linee interpretative dettate dalla Cassazione. Si tratta, come vedremo, di un’interpretazione restrittiva delle normative sulla cittadinanza, in contrasto con la procedura corrente.
Qual era l’interpretazione prima della due sentenze della Cassazione?
L’art. 7, della legge 555/1912, che ha regolato la materia sino alla Legge 91/1992, consentiva, al figlio di un cittadino italiano, nato in uno Stato estero, di cui aveva ottenuto la cittadinanza in base al principio dello ius soli, di conservare la cittadinanza italiana acquisita alla nascita. La normativa richiedeva due condizione per il riconoscimento della cittadinanza iure sanguinis: da un lato la dimostrazione della discendenza dall’avo emigrato cittadino italiano e, dall’altro, l’assenza di interruzioni nella trasmissione della cittadinanza (leggasi mancata naturalizzazione straniera dell’avo italiano prima della nascita del figlio, assenza di dichiarazioni di rinuncia alla cittadinanza italiana da parte degli ulteriori discendenti prima della nascita della successiva generazione). È importante chiarire che, per naturalizzazione, s’intende una modalità di acquisto della cittadinanza, da parte della persona straniera, che ne fa richiesta e che è in possesso di determinati requisiti previsti per legge del luogo ove intenda naturalizzarsi.
Cosa dicono le sentenze della Cassazione?
Le nuove sentenze della Cassazione vanno in senso contrario rispetto all’orientamento finora dominante. Esse, infatti, stabiliscono che il figlio minore di un cittadino italiano, che abbia acquistato la cittadinanza straniera per nascita nel paese straniero, perde la cittadinanza italiana in conseguenza della scelta del genitore di naturalizzarsi. La sentenza del 2024 chiarisce, in modo molto articolato, che la scelta operata dal padre, cittadino italiano, di naturalizzarsi produceva effetti nella sfera giuridica dei figli minori a lui sottoposti. Secondo gli Ermellini la decisione adottata dal genitore in qualità di “capo famiglia” e titolare della patria potestà, riverberava i suoi effetti anche sui figli. Invero, la naturalizzazione volontaria del genitore determinava l’interruzione delle linee di trasmissione, salvo che l’ascendete, una volta divenuto maggiorenne, allora la maggiore età si raggiungeva al 21º anno di età, non riacquistasse la cittadinanza italiana ai sensi degli articoli 3 e 9 della L.555/1912. È bene evidenziare che il riacquisto della cittadinanza era un evento rarissimo, principalmente dovuto alla totale ignoranza della normativa italiana sulla cittadinanza.
E per le richieste già presentate?
Questo è uno dei punti più critici. Molte domande presentate per via amministrativa sono ferme nei consolati di riferimento. Basti pensare che a causa dei cronici problemi di carenza di personale, le pratiche impiegano sino a due anni per essere esaminate. È chiaro che ci troviamo di fronte ad un problema grave che espone tutti coloro che sono in attesa di risposta a veder respinte le loro richieste. So che deputati e senatori del Partito Democratico, come il deputato Christian Di Sanzo e la senatrice La Marca, hanno chiesto chiarezza al governo suggerendo una moratoria per tutte le richieste presentate prima della Circolare ministeriale dell’ottobre di quest’anno. Il Governo attuale, dal canto suo, ha sposato una linea dura sulla questione. Prova ne sia che nella recente legge di Bilancio ha introdottouna norma, articolo 106, che ha aumentato il contributo unificato, dovuto per le controversie in materia di accertamento della cittadinanza italiana, da 518 a 600 euro. Ma soprattutto ha statuito che, ove la domanda sia proposta, nel medesimo giudizio congiuntamente da più parti, il contributo è dovutoda ciascuna parte ricorrente. A dimostrazione della volontà di disincentivare questi ricorsi.
Quali sono le prospettive?
Se la circolare verrà applicata rigidamente, come appare chiaro dal tenore letterale della stessa, migliaia di domande verranno rigettate. Questo costringerà molte persone a rivolgersi ai tribunali, ingolfando ulteriormente il sistema giudiziario.
Cosa potrebbe cambiare?
L’unica speranza è che la questione torni alla Cassazione e che si ottenga un’interpretazione diversa, magari dalla Sezione Unita, che potrebbe definitivamente far chiarezza su questa questione. Fino ad allora, la situazione resterà un’impasse che penalizzerà migliaia di persone, soprattutto quelle che hanno presentato richieste prima dell’entrata in vigore delle nuove regole interpretative.
C’è un fattore culturale dietro queste richieste?
Sì, assolutamente. I richiedenti americani lo fanno per reclamare l’appartenenza alle loro origini. Non vogliono certamente trasferirsi a lavorare in Italia, ma riconnettersi con le proprie radici. C’è dunque un fortissimo legame affettivo con il “nostro” paese che li porta spesso ad acquistare una casa nel paese d’origine o a trascorrervi la vecchiaia. Questo non solo ha un valore simbolico, ma porta anche benefici economici alle aree, specialmente nel Sud Italia, dove queste persone scelgono di stabilirsi. A ciò si aggiunga, la paura latente, causata dai risultati della recente elezione presidenziale, che ha spinto molti italo-americani a cercare una “via d’uscita”.