7 anni in America: New York e la pittura di Elisabetta Pienti

Nata e cresciuta a Milano, dove si è formata come interprete, Elisabetta Pienti ha vissuto gli ultimi sette anni a New York. Qui ha trovato l’ispirazione e l’abbrivio per trasformare una passione vissuta a lungo come necessità e self-therapy, quella per la pittura, in una storia di affermazione professionale. La sua arte astratta, perfezionata tecnicamente alla New York School of the Arts, ha conquistato negli anni il gusto di molti collezionisti americani e le è valsa, tra le altre cose, l’inserimento nel catalogo Artisti ‘24, l’annuario internazionale di arte contemporanea edito da Mondadori. L’abbiamo intervistata per IlNewyorkese, nel bel mezzo del trasloco che la riporterà a breve nella sua Milano.

A maggio le tue tele hanno ritrovato l’Italia con la mostra Ambientarti a Milano e a giugno rientri anche tu nella tua città natale. Quali sono le aspettative per questa nuova fase della tua vita e come vedi l’attuale scena delle arti in Italia e a Milano?

Cosa aspettarsi è davvero difficile dirlo. Certo è che, anche se sono andata via da Milano sette anni fa, ho sempre mantenuto un fortissimo legame con l’Italia sia a livello personale che artistico. In generale sono abituata a prendere tutto di petto e un po’ come viene, quindi non mi creo mai chissà quali aspettative. Osservando dall’America, posso dire che l’ambiente a Milano appare molto dinamico e non mi vedrei a rientrare in altre città italiane dopo l’esperienza newyorkese. Seppure in piccolo, Milano è forse il centro che si avvicina di più per movimento e apertura alle novità a New York. Sono perciò contenta di tornare in una città con un tale fermento.

Si può dire che l’arrivo a New York sia stato un vero turning point nel tuo percorso artistico. Ci fai rivivere un po’ l’atmosfera e le sensazioni di quel 2017, anno del tuo trasferimento nella Grande Mela…

Il 2017 è stato davvero un anno di grande cambiamento, ero al primo trasloco ed espatrio in assoluto. Arrivò quest’opportunità e decidemmo di coglierla e trasferirci tutti insieme. Una volta a New York, avevo diverse possibilità: continuare a fare ciò che facevo in Italia, dove organizzavo eventi per un’azienda farmaceutica – e le opportunità non mancavano – godermi quei 2 anni (inizialmente l’esperienza americana doveva durare solo un biennio) e mettermi in aspettativa dal mio lavoro in Italia, oppure esplorare la novità a 360°. Avevo sempre avuto una grandissima passione per la pittura, che portavo avanti da sempre. Ho iniziato a dipingere nel 2008, senza uno specifico percorso accademico a supporto. Qui a New York ho trovato il modo e il tempo di ascoltare appieno questa passione che per anni era rimasta un po’ sopita, in coda alle mille cose da fare tra lavoro, due bambini, ecc. In Italia, la pittura c’era da sempre ma era un hobby. A New York, subito ispirata dal grandissimo fermento, dagli stimoli dell’ambiente, dalle tantissime cose da vedere, ho realizzato una grandissima produzione. Soprattutto ho cambiato totalmente mindset: in Italia dipingevo per me, non facevo vedere i miei lavori a nessuno, era una mia autoterapia personale, un qualcosa di nascosto che non desideravo condividere; negli Stati Uniti, ho proprio cominciato ad esprimere questo desiderio e a mostrare le mie tele. Dopodiché incoraggiata dalle prime reazioni e dai primi “perché non li vendi?”, ho iniziato a esplorare anche quell’aspetto lì, da autodidatta e quindi facendo proprio tanta gavetta…

Come cambia l’approccio americano all’arte rispetto a quello italiano?

Cambia tanto e per mille motivi. L’italiano ha un retaggio culturale pazzesco e quindi, per ridurre in poche parole, se non dipingi la Cappella Sistina, non sei un artista. Gli americani, oltre ad avere un potere di spesa differente, si avvicinano a un nuovo artista in maniera completamente diversa. Ho tanti collezionisti americani e loro, essenzialmente, vedono una tua tela, la apprezzano e la comprano. Hanno proprio piacere a possedere arte e, senza stare a indagare e a pretendere da te tutto il tuo background, si innamorano del tuo lavoro. Gli italiani invece tendono a farsi frenare da tutta una serie di sovrastrutture. Paradossalmente poi qualcosa cambia quando vendi e hai successo all’estero, con il senso critico che lascia un po’ spazio al nostro essere esterofili.

“Alla fine della cascata” | Elisabetta Pienti | Olio su tela | 61x61cm (24”x24”) | New York City | 2023

A New York si sono quindi formati i presupposti per il tuo successo anche in Italia…

Potremmo dire di sì, ma al di là di questo, non si riduce tutto a un “vendi a New York allora vendi anche in Italia”: ciò che fa davvero la differenza è la credibilità e autorevolezza che riesci a costruirti negli anni, tra critici d’arte che scrivono di te, cataloghi e mostre in cui appari, progetti editoriali a cui partecipi. A New York, avendo tempo, ho anche studiato alla New York School of the Arts e questo, a livello tecnico, mi ha aiutato moltissimo. È innegabile però che il fatto che venda in Italia derivi anche dall’aver venduto tanto in America. Tant’è che i confini spaziali, anche nella mia professione, sono ormai relativi se non proprio inesistenti. Il fatto che io torni in Italia non cambierà nulla o quasi del mio lavoro, produrrò a Milano ma venderò in tutto il mondo, grazie ai social, all’online e ai collezionisti che vivono in America coi quali non verranno meno i rapporti.

Hai appena nominato i social. Com’è vivere di arte e pittura in un mondo in cui siamo bombardati dalle immagini ogni volta che prendiamo lo smartphone in mano?

Bisogna premettere che, facendo astratto, c’è una connessione unica che si crea tra l’opera e chi la guarda. Sai, guardi un quadro e lo scegli. Invece secondo me con la pittura astratta è esattamente l’opposto, è il quadro che sceglie te. Ognuno crea una storia personale con il pezzo, porta il suo vissuto dentro il dipinto che osserva. Un’immagine sui social non potrà mai avvicinare il rilascio di vibrazioni ed emozioni che viene da un pezzo d’arte, e questo non cambierà mai per chi sceglie un’opera ed è disposto a pagarla per l’emozione che gli ha restituito, e non come investimento o come elemento d’arredo.

“La Metafisica della Luce” | Elisabetta Pienti |Olio su tela | 61×61 cm (24”x24”) | 2023 | New York City | Esposto nella mostra collettiva internazionale “La metafisica della Luce” Palazzo Bellini – Firenze (gennaio 2024) Curata da Chiara Immordino Tedesco e Valeriano Venneri | Critica a cura di Francesco Gallo Mazzeo

Quali sono stati in questi 7 anni i tuoi luoghi del cuore, quelli che ti hanno ispirata di più a New York?

Credo che nella mia arte non ci siano luoghi in particolare, è stata più l’atmosfera newyorkese a ispirarmi. In particolare l’esposizione costante alla diversità, alla novità, al non giudizio è stata la chiave. Rispetto agli ambienti in cui ho sempre vissuto, nella città di New York mi è parso di respirare questa libertà, non tanto di fare, quanto di provare e sperimentare senza l’ansia di qualcuno che ti guarda, vede, giudica. Questa libertà di espressione è stata determinante, un vero turning point, forse perché la mia arte non è mai stata legata al giudizio degli altri, come raccontavo prima, dandomi sicuramente la spinta per produrre tanto. Forse questo è l’unico aspetto del mio rientro in Italia che mi spaventa un po’, chissà se sarò altrettanto ispirata.

Riesci a darci 3 consigli per i creativi che vogliono inseguire il proprio Sogno Americano?

Il primo, cruciale, è non autolimitarsi. Prova, fai, crea, senza pensare al “tanto non servirà a nulla”, “tanto non piacerà a nessuno”, ecc. Se tu non sei il primo a credere in quello che fai, nessuno lo farà per te. Può suonare banale, un consiglio da nonna, ma conosco davvero tanta gente di talento che non produce, a volte anche per pigrizia. Il secondo consiglio è non escludere nessuna possibilità. Cogli ogni occasione per promuovere la tua passione, non in ottica business, ma piuttosto perché a New York non sai mai quello che ogni persona che incontri o ogni faccia che trovi sul tuo cammino può darti. Il terzo consiglio è di non cercare l’Italia negli Stati Uniti, perché chiaramente ne rimarrai deluso. Go with the flow, prendi il bello che c’è qui, senza cercare il tuo mondo in questo nuovo mondo.

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Marco Costante

Classe 1990, Marco G. Costante è autore, copywriter e ghostwriter tarantino. Storico per formazione accademica, marketer per deformazione professionale, è tra i fondatori de L’Olifante, collana di libri di approfondimento musicale, e scrive di musica, marketing e reputazione per i magazine SMMAG! e Reputation Review. Innamorato fin da bambino della cultura e degli sport a stelle e strisce, ha recentemente contribuito al saggio Against Stereotypes - The Real Reputation of Italian American di Davide Ippolito.

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