Spiragli di pace

Alla fine Trump ce la farà. So di attirarmi le critiche del mainstream italiano e, in buona parte, europeo, ma io credo in questa ossessione di The Donald per il Nobel per la pace. Il tema è che, dopo quattro anni di combattimenti, di distruzione, di vite umane perse, una via per fermare tutto questo va trovata.

Non sarà forse la via migliore del mondo, ma è un mondo che sta cambiando: non tanto sull’asse ordine–disordine, quanto su quello di una nuova gerarchia di interessi geopolitici e dunque economici e militari.

L’America è tornata a parlarsi con la Russia, fin troppo — dicono quelli che si lamentano del ruolo secondario dell’Europa e della stessa Ucraina. Vero, ed è vero. Nella parte della non beota realtà c’è però il fatto che gli Stati Uniti sono ancora nella NATO e guardano al Vecchio Continente in modo diverso, ma non distante. Dazi e retorica da propaganda a parte, il Vecchio Continente rimane centrale, se si dà una scossa.

Le armi per aiutare Kiev noi le compriamo dagli Stati Uniti e Trump non ha chiuso l’interruttore dell’intelligence, senza la quale l’esercito ucraino sarebbe stato già debellato, soprattutto nella parte più moderna di una guerra del XXI secolo.

In realtà Trump, ricevendo Zelensky, non ha fatto solo pressioni sul Donbass, ma ha anche dato rassicurazioni. Il presidente ucraino ha parlato di accordi di pace raggiunti al 90 per cento.

Non mi sembra che si sia mai andati così vicini. O che altri, nel politically correct che piace a quelli che sono sempre dalla parte giusta, abbiano fatto di meglio con le loro “idee volenterose”.

Certo, i punti oscuri rimangono. Chi comporrà la forza internazionale cuscinetto? Kiev avrà un suo esercito? Il suo diritto alla sicurezza quanto è distante da quella neutralità inoffensiva che sogna Mosca? E Mosca, appunto, che dice?

Per ora freddezza e solita propaganda, e la diffidenza verso ogni forma di diplomazia, per continuare a vincere sul campo e cristallizzare la situazione in vista di un eventuale tavolo di dialogo. Ma la pazienza trumpiana avrà un limite, e questa mano tesa a Putin — a dispetto della parte europea dell’Occidente — dovrà prima o poi trovare un’altra mano ragionevole.

È la speranza, la prima doverosa speranza, per il 2026 che arriva.

Immagine di Claudio Brachino

Claudio Brachino

Giornalista, saggista ed editorialista italiano. Laureato in Lettere, passione per il teatro, ha scritto con De Filippo e Michalkov. Poi 32 anni in Fininvest e Mediaset, dove è stato vicedirettore ed anchor di Studio aperto, due volte direttore di Videonews, la fabbrica dei format, direttore di Sport Mediaset e di Radio Montecarlo news. Inoltre, ha diretto per due anni il Settimanale, magazine cartaceo e web sulle Pmi, ha scritto per Il Tempo e Il Giornale, ora è editorialista del Multimediale di Italpress, opinionista tv per Rai e La7 e direttore editoriale di Good Morning Italy. Da poco ha firmato una collaborazione per lo sport del circuito Netweek.

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