Il potere delle parole

Spesso succede che un fatto intrinsecamente americano diventi anche un grande tema del dibattito pubblico italiano. Stiamo parlando dell’omicidio del giovane influencer conservatore Charlie Kirk. Un omicidio che possiamo ascrivere all’odio politico.

La più grande democrazia del mondo è anche quella che si porta dentro la grande oscurità dei misteri e una violenza che nella storia, tante volte, da verbale è diventata reale. Non bisogna andare troppo lontano. Trump poteva essere ucciso durante la campagna elettorale. La pallottola che, secondo lui, Dio ha deviato ha lambito l’orecchio ma era dedicata alla sua testa.

Sono stato dieci volte negli Stati Uniti per il mio Top Secret per la morte (non naturale) di John e Robert Kennedy e per l’assassinio di Martin Luther King. Al presidente Reagan hanno sparato, ma hanno sparato sotto casa anche a John Lennon, forse anche quello un assassinio parapolitico.

Ogni volta si danza fra gesti di follia individuale, complotti, servizi segreti, ambiguità. Stavolta l’odio ideologico c’entra eccome. In Europa il massacro compiuto dal neonazista norvegese Breivik (77 morti) fu ideologico. Ma l’America ha una sua genetica diversa e anche paradossale, proprio perché, come detto, è anche una democrazia matura e straordinaria.

Da noi, per fortuna, l’avversario politico ancora si combatte soprattutto con le parole. Ed ecco che le due leader donne del Paese, il premier Meloni e la segretaria del Pd Schlein, sulla storia di Kirk si sono dialetticamente menate.

Per Meloni e il centrodestra italiano l’assassinio di Kirk ci fa vedere cosa succede quando un’opposizione usa toni di violenza, di odio, di annientamento dell’avversario. Per Schlein, Meloni strumentalizza a suo favore, ma la condanna, lei dice, è stata unanime. Però qualche intellettuale progressista nella trappola del giustificazionismo ci è caduto.

Su questo sono netto: alla violenza fisica che porta alla morte si dice no e basta. Senza se e senza ma. E il discorso deve essere di tutti, bipartisan. Anche l’Italia ha avuto i suoi anni di piombo e non li rivogliamo più.

La dialettica politica deve essere accesa e libera, ma niente cancel culture, azzeramento dell’altro: è pericoloso per alcuni cervelli. Il paradosso americano (un altro) è che la cancel culture viene più dal mondo progressista e non da quello presunto autoritario del trumpismo.

Ed è appunto un cortocircuito di chi difende i diritti ma si arroga il diritto di voler zittire (fino all’estremo, poi, purtroppo, nella interpretazione di qualche fanatico) chi non la pensa come noi.

Poniamo limiti al linguaggio politico? No, ma poniamo limiti alle coscienze e facciamo un richiamo a una cosa che ha poco fascino ma è sempre molto utile, ovvero al buon senso, alla misura, all’equilibrio.

Nella consapevolezza che le parole non sono monete vuote, ma la forma più alta di azione del cervello umano. Imparate a usarle.

Immagine di Claudio Brachino

Claudio Brachino

Giornalista, saggista ed editorialista italiano. Laureato in Lettere, passione per il teatro, ha scritto con De Filippo e Michalkov. Poi 32 anni in Fininvest e Mediaset, dove è stato vicedirettore ed anchor di Studio aperto, due volte direttore di Videonews, la fabbrica dei format, direttore di Sport Mediaset e di Radio Montecarlo news. Inoltre, ha diretto per due anni il Settimanale, magazine cartaceo e web sulle Pmi, ha scritto per Il Tempo e Il Giornale, ora è editorialista del Multimediale di Italpress, opinionista tv per Rai e La7 e direttore editoriale di Good Morning Italy. Da poco ha firmato una collaborazione per lo sport del circuito Netweek.

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