Figlie di tutti noi. Questo il grido, questo lo slogan, questa la scritta che dalla Chiesa di Misilmeri è finita nello stadio del Palermo, sulle maglie rosa dei giocatori.
Sara Campanella è stata uccisa barbaramente per strada a Messina con una sequenza di coltellate al collo che non le hanno lasciato scampo. Stefano Argentino, questo il nome del suo assassino, 27 anni, collega di università.
Si lamentava, così dicono i conoscenti, perché Sara ultimamente non gli sorrideva più come un tempo. Una storia di stalker purtroppo esemplare, dove realtà (poca), fantasia malata (tanta) si confondono fino ad un epilogo inaccettabile.
Sara, bellissima, solare, vitale, un futuro lì a portata di mano, è tornata ieri nell’altra parte della Sicilia, la provincia di Palermo di cui era originaria, ma in una bara bianca. Tanta commozione, tanta rabbia, una reazione forte anche da parte delle istituzioni.
Il sindaco di Palermo, Lagalla, ha proclamato il lutto per tutti i comuni dell’area metropolitana della città. E’ una ferita della società tutta, non solo dei familiari della vittima. Alla camera ardente si è levata una voce polemica ma che fa riflettere.
Ai microfoni di un tg nazionale è stato detto che oggi le stragi delle donne hanno preso il posto delle stragi di mafia. Non è corretto in termini di analisi, ma il grido rimane. Purtroppo i femminicidi in Italia riguardano tutti i territori. Quello che ha fatto discutere anche la politica, anzi che ha fatto irruzione in tutto il discorso pubblico nazionale, quello di Giulia Cecchettin, è stato commesso nel Veneto borghese. In queste ore a Roma gli inquirenti stanno ancora cercando di ricostruire con esattezza la morte di Ilaria Sula. Anche lei giovane, anche lei bella, anche lei studentessa universitaria, anche lei uccisa da un uomo, da un giovane, il suo ex Mark Samson. Anche lei a coltellate.
Dall’inizio dell’anno i femminicidi sono 11, per altre fonti 17, ma a questo proposito c’è polemica sui dati, su chi li raccoglie, e come, e su chi li diffonde. E c’è polemica sulle categorie e i parametri della cosiddetta violenza di genere.
Ma andando oltre, senza fare confronti statistici che secondo me sono fuorvianti, quella che ai microfoni di un tg veniva, come detto sopra, chiamata “la strage delle donne”, c’è eccome. Ed è sempre di più un fenomeno sociale e antropologico difficile da arginare.
Nonostante l’impegno dei media e anche della politica, nonostante le pene più severe e una disponibilità culturale generale costante a discutere del problema, che non si può negare nonostante divisioni ideologiche a volte profonde. Secondo me il tema non è, o non è soltanto più: il patriarcato che resiste.
Alcuni anni fa, nel 2009, scrissi un racconto (in realtà analisi) di un fatto reale per la raccolta “Ti amo ti ammazzo” per Cairo editore. La storia era quella di una ragazzina uccisa con un coltellino da un compagno di scuola. Uccisa durante la pausa delle lezioni, in un istituto milanese. Ti ammazzo perché l’uomo, in questo caso un giovane (ma giovani sono anche gli assassini delle ultime storie drammatiche che abbiamo affrontato oggi e che dominano i media italiani) non ha più un linguaggio per rispondere alle istanze di libertà delle nuove donne della nuova società.
Mi amo troppo per stare con chiunque, diceva Sara, in un inno, anche estremo, alla sua libertà di autodeterminazione del proprio destino. A questa libertà bisogna rispondere con una nuova lingua. Dentro una nuova visione delle relazioni. E si dovrà cominciare per forza dalla scuola, dove l’Italia è indietro rispetto alle alte democrazie europee.