Benvenuti da Claudio Brachino a questo nuovo appuntamento con ritratti o anche portraits, perché noi usiamo sia la lingua italiana che la lingua inglese, proprio perché Buongiorno America è un sistema di testate integrate che lo sapete vuole fare da ponte culturale e di comunicazione fra l’Italia e gli Stati Uniti. L’ospite di oggi è Massimo Carnelos, dirige l’ufficio Innovazione, Tecnologie e Start-up per il Ministero degli Esteri.
Ha una lunga esperienza anche in istituti economici importanti, ci sono due parole che rincorrono un po’ la parte dei nostri racconti, cioè l’innovazione tecnologica. Poi parleremo anche ovviamente della dimensione estera delle nostre aziende, perché lui lavora al Ministero degli Esteri, e start-up.
Sono tutte parole che usiamo tutti i giorni e poi alla fine bisogna declinarle. La prima cosa che chiedo sempre nel è una sua piccola carta d’identità per farsi conoscere al nostro pubblico.
Nato a Roma, e cresciuto almeno fino ai 18 anni a Roma, poi ho cominciato a girare per il mondo, appassionato dai posti quanto più remoti possibili. Laurea in Lettere e Filosofia e poi dopo una serie di esperienze tra insegnamento e organizzazioni internazionali, Bruxelles, Nord Europa; sono approdato in carriera diplomatica a fine 2001, quindi ho già un buon ventennio alle spalle, servendo i paesi tra l’Asia, il Medio Oriente, l’Europa, il Regno Unito, eccetera, e da un po’ di anni mi occupo di innovazione e tecnologia. È un po’ anomalo per un diplomatico di carriera occuparsi di questi temi, ma quando ho cominciato ad appassionarmi al settore, pur non avendo competenze scientifiche o tecnologiche specifiche (almeno ereditate dai miei studi) forse ci ho visto un po’ lungo, nel senso che da una parte anche noi diplomati dobbiamo essere sempre più informati e poi trovare anche un po’ una specializzazione, un settore in cui in qualche modo ci appassioniamo perché poi questa passione riverbera sulla capacità di operare in modo efficace. Quindi già da alcuni anni fa, quando lavoravo a Roma nell’unità di analisi e programmazione, cominciavo a occuparmi di temi tecnologici, cioè quelle che erano le tecnologie, l’evoluzione dinamica e poi in qualche modo impattavano sui processi globali. Poi ho avuto un’ importante tappa a Londra di cinque anni, dove ho lavorato sia in ambasciata come il capo del fuso economico e poi contemporaneamente nella banca europea di sviluppo, la BERS, nel consiglio di amministrazione, occupandomi sia di innovazione e di tecnologia che dell’interconnessione che c’è tra finanza e il mondo dell’innovazione.
Per poi tornare a Roma, e questa è l’ultima parte della mia biografia, a dirigere questo ufficio, molto importante dal mio punto di vista, perché in qualche modo è stato creato a mia misura, se posso dirlo, perché è importante che un ministro degli esteri oggi si occupi di diplomazia e di innovazione, che poi è un termine lanciato dal ministro Tajani, nella misura in cui molto dei rapporti internazionali oggi hanno una componente tecnologica forte.
Oggi se si è all’avanguardia su questi sui temi tecnologici si conta di più, questo è un po’ il motivo.
Riparto da quest’ultimo termine, che mi piace. Anche io sono laureato in lettere e filosofia, però la mia specializzazione è più sulla filosofia del linguaggio, la semiotica, la critica letteraria, materia che poi mi ha accompagnato nella mia carriera giornalista. Quindi io lavoro molto sulle parole, anche lì sono innovazione. Però la diplomazia dell’innovazione mi affascina, perché mette insieme due temi, cioè l’attività diplomatica (qui parliamo di ministeri degli esteri), e sappiamo quanto la diplomazia è oggi importante in un mondo globalizzato, interconnesso, abbiamo raccontato tante volte l’importanza della geopolitica, ma anche (e veniamo al secondo tema) quanto è importante che questo avvenga sul piano del discorso tecnologico. Adesso vi faccio un esempio, poi dopo lascio a lei spiegare che cos’è la diplomazia dell’innovazione come operate.
Quando io mi trovo a rispondere in un talk sui satelliti di Musk, cerco di spiegare che l’evoluzione della tecnologia, della comunicazione anche a quel livello, non è una cosa che accompagni un singolo Presidente degli Stati Uniti, ma avviene negli anni e mette insieme, indubbiamente, tanti aspetti che poi riguardano tanti paesi. Però, per dire, innovazione e diplomazia sono affascinanti insieme. Se ce la vuole spiegare, dopo poi andiamo poi nello specifico delle start-up.
La questione è molto semplice, nel senso che l’innovazione e la tecnologia sono sempre state la base dei processi di crescita economica e dei processi di sviluppo, quindi significa focalizzare meglio questi fattori della produzione, se possiamo così chiamarli, come valore aggiunto della possibilità per il nostro paese di crescere. Quindi, nel momento in cui i paesi non sono delle isole felici, ma sono delle realtà interconnesse con il resto del globo, quando noi cerchiamo di sostenere la legittima aspettativa di crescita e quindi di mantenimento delle conquiste sociali, il benessere diffuso, lo possiamo fare soltanto se continuiamo a crescere. Per crescere ci vuole una componente sempre più intensa di innovazione tecnologica, ma non tanto sulle tecnologie di oggi, ma quelle del futuro.
Quindi bisogna guardare avanti, poter immaginare quali saranno le direttrici sulle quali poi il nostro pianeta orbiterà e su quelle provare a fare una proiezione strategica e quindi un’azione sistemica di sostegno. Ci sono gli operatori del mondo delle innovazioni, che sono i ricercatori, sono coloro che lavorano nei laboratori, ma poi ci sono coloro che sono in grado di trasformare queste innovazioni, queste idee, in imprese, perché poi i nostri sistemi nuovi ruotano intorno alle imprese. Le imprese vendono, producono, creano fatturato, pagano le tasse, assumono e assumendo pagano gli stipendi, gli stipendi mettono in circolazione il reddito e il reddito a sua volta, fa ricominciare questo ciclo, diciamo, virtuoso.
La conoscenza delle tecnologie è importante, perché poi senza nessun timore o paura (anche se si parla molto di questo spauracchio dell’intelligenza artificiale, per il mio punto di vista molto eccessivo) per dominare le tecnologie bisogna conoscerle, bisogna stare on top of them, come si dice in inglese, quindi sapere di cosa trattiamo, in modo da poi far sì che quelle tecnologie siano al nostro uso e consumo, perché, parafrasando Heidegger, alla fine è l’uomo che sta al centro di tutto e quindi è l’uomo che si fa la domanda sul senso di esistere e quindi le tecnologie a cosa servono? Servono a dare a noi un’utilità per migliorare la nostra qualità della vita.
Lei è un umanista, lo sono anch’io, mi piace questa visione dell’uomo, lei uno tecnico, si occupa di queste materie tutti i giorni, e ha un atteggiamento non apocalittico riguardo all’ intelligenza artificiale. Non c’è un approccio razionale al problema: abbiamo quelli che sono i fedeli, diciamo così, illuministi del progresso tecnologico e gli altri che si spaventano e parlano appunto della fine dell’uomo. Forse in mezzo c’è una visione un pochino più concreta, e forse anche legittima, per esempio veniamo a sapere, riguardo le nostre PMI (che il ministero e il suo ufficio seguite da vicino) che investono nelle tecnologie il 10-15% del potenziale, quindi siamo ancora a un livello, più che di paura dell’homo sapiens, di insufficienza rispetto a come usano le tecnologie altri paesi, altre democrazie occidentali o altre grandi potenze economiche. È così o no?
Io ritengo che questo eccessivo timore o eccessivo parlare sulla governance dell’intelligenza artificiale tradisce un po’ il fatto di non avere l’idea chiare e di essere forse un po’ indietro nella capacità di sviluppare tecnologie legate all’intelligenza artificiale. Cioè io, da quello che posso vedere approfondendo il tema sia qui che nei viaggi che faccio negli Stati Uniti, o parlando con le imprese, vedo un enorme beneficio che può derivare dall’intelligenza artificiale nel settore medico, nel settore della ricerca scientifica, nella creazione di nuovi farmaci: il panorama è infinito e quindi parlare insistentemente di governance è come dire non riesco a parlare di altro perché sull’altro non è molto da mostrare e quindi parliamo di come ingabbiare questa cosa, che fondamentalmente noi non conosciamo. Invece realmente conosciamo che dietro c’è una matematica molto elegante, che poi viene utilizzata per far lavorare queste macchine e tirare fuori dei dati predittivi, ovviamente è arrivata a livelli di sofisticatezza molto molto avanzata, però poi l’importante è passare anche dalle parole ai fatti e quindi investire in intelligenza artificiale perché tanto non è chiudendosi a riccio che si evitano dei processi..in Europa c’è un po’ da dire sul fatto che su certe cose siamo rimasti un po’ indietro, non lo dico io, ma lo dice qualcuno un po’ più di me che è Mario Draghi.
Ho citato quel numero non a caso appunto, perché anziché parlare dello spavento conviene investirci un po’ di più…
Esattamente perché le PMI si troveranno a doversi confrontare con una concorrenza internazionale che non fa sconti a nessuno. Come affronti tu la concorrenza internazionale, non chiudendoti in un’autocrazia ma provando a giocare la partita e provare a vincere, quindi superare questa sfida. Ma lo fai come?
Continuando ad innovare e ad oggi buona parte dell’innovazione è anche adottare strumenti di intelligenza artificiale che semplicemente ti fanno essere più produttivo, più efficiente e ti fanno anche lavorare meglio. Perché poi sostanzialmente, se diamo un’occhiata all’intelligenza artificiale agentica, come viene chiamata traducendo malamente dall’inglese, in sostanza è quello che automatizza tutta una serie di processi che noi nel mondo dei servizi, quindi nel mondo dell’ufficio, facciamo e ci portano via un sacco di tempo, non consentendoci magari di riflettere di più sulla parte strategica perché poi dobbiamo gestire una serie di medi, di contatti.
L’intelligenza artificiale fondamentalmente ti consente di fare questo. Adesso, diciamo, nel prossimo futuro ci saranno innovazioni prossime, quindi per le PMI è una bella sfida. Sfida che invece le start-up hanno colto in pieno e infatti stanno lavorando molto bene su questi settori.
Ecco, a proposito di start-up, io vorrei parlare di tanti posti del mondo, però stiamo al tema editoriale delle nostre testate, quindi Italia e Stati Uniti. Io cito spesso, non so se lei lo conosce, un consulente delle PMI e delle start-up che vive in California, che ha scritto per me, si chiama Cirolli: l’hanno chiamato in tutto il mondo, tranne che in Italia, ovviamente, come consulente per le start-up. Mi diceva sempre che in America, quando le persone hanno un’idea, si mettono nel proprio garage e fanno una start-up, non hanno paura di fallire e la portano avanti.
Lui vive in California, noi siamo un po’ più vicini all’East Coast dove ci sono più italiani e italoamericani come riferimento editoriale, però vale per tutti gli Stati Uniti. Invece noi italiani siamo geniali nell’idea, ma poi facciamo casino nei ruoli, poi abbiamo sempre questa benedetta paura di fallire.
Oggi allora le chiedo, cosa vuol dire fare una start-up di italiani in America? E come voi l’aiutate in questo senso, con delle regole, con degli incentivi, con tutto quello che è il vostro apparato istituzionale?
Innovazione tecnologica e startup vanno insieme, nel senso che l’innovazione tecnologica viene sempre più fatta dalle start-up, che sono più coraggiose, probabilmente, delle PMI. Il mio ufficio si occupa delle tecnologie abilitanti, delle tecnologie di frontiera, e si occupa anche delle start-up, perché molte delle tecnologie di frontiera, (parliamo di AI, di materiali avanzati, di quantum, di biotecnologia) vengono spesso fatte dalla start-up, perché sempre di più l’innovazione viene dal basso, non tanto dall’alto. Come le aiutiamo? Cercando di aprire a loro i mercati internazionali, perché l’Italia, ma la stessa Europa, è troppo piccola per una start-up.
Il “modello start-up” non è un’azienda che nasce, cresce e si sviluppa e poi diventa media e grande. Il modello start-up, così come è stato codificato, è un modello di impresa che nasce da un’idea brillante con dietro un imprenditore brillante, molto coraggioso (non basta la genialità, servono anche le competenze imprenditoriali), che cresce in modo esponenziale, perché è la crescita esponenziale che giustifica quell’investimento ad alto tasso di rischio che arriva dal venture capital: quindi le due cose sono collegate e quindi l’azienda deve crescere più rapidamente di qualsiasi altra impresa e per questo poi ne sopravvive una su dieci in media, ma forse anche meno. Allora, che cosa si può fare per aiutare questa rapida espansione?
Convincere i nostri fondatori di start-up che il mercato italiano, ma anche lo stesso mercato europeo, è troppo piccolo per avere un’espansione così rapida, quindi devi guardare all’universo mondo; significa che tu come fondatore devi essere internazionale dal giorno zero, dal primo giorno che cominci a lavorare. “Il mio mercato è il mondo”, questo è quello che noi facciamo, prima come un’attività quasi di proselitismo, la seconda attività che facciamo poi, concretamente, le portiamo nelle grandi fiere internazionali, attraverso l’agenzia ICE, che ovviamente è l’agenzia che è sotto il Ministero degli Esteri per gli indirizzi e per la vigilanza, laddove poi creiamo dei padiglioni italiani e facciamo incontrare queste start-up con investitori, con imprese più grandi che magari sono interessate alle loro soluzioni tecnologiche. Infine abbiamo aperto un centro di innovazione lì dove andava aperto, quindi in Sillicon Valley: da due anni esiste un centro che si chiama Innovit, una bella esperienza in cui c’è un luogo fisico, in cui facciamo tutta una serie di eventi, di networking, conferenze. Ci passano università, le aziende più grandi che magari si prendono un desk di pagamento ovviamente, ma il core business è quello di portare delle start-up italiane per determinati settori tecnologici, quindi a giocare nel campionato più importante del mondo, che è quello che si gioca sostanzialmente nella Silicon Valley. Quello è forse il nostro più importante contributo, questo è una dei risultati che io direi in qualche modo ci possiamo sempre portare a casa: anche laddove l’azienda poi non è riuscita a penetrare quel mercato perché è ancora troppo giovane, troppo piccola, o anche qualora non sia riuscita a trovare un investitore (perché ovviamente questi sono investitori di un certo livello e difficilmente guardano un’impresa così alle prime armi) quei giovani imprenditori torneranno sicuramente cambiati dall’esperienza della Silicon Valley perché, per una settimana o due, hanno potuto vedere come veramente si gioca nella Champions League dell’innovazione. Io, che già un po’ di volte vado in Silicon Valley, posso assicurarvi, per quanto i giornali scrivano un po’ di tutto, che le innovazioni ancora vengono create lì, perché c’è un sistema particolare, parlando della partecipazione al rischio, del coraggio dell’imprenditore.
Con l’Italia possiamo dire la nostra, perché abbiamo tante qualità, abbiamo tante competenze, abbiamo tanta creatività e innovazione e serve dargli un po’ più di struttura a livello domestico, anche con agevolazioni, finanziamenti ad hoc (che ci sono perché la normativa migliora progressivamente) ma poi bisogna dargli anche quel pochino di aiuto per fargli frequentare i mercati internazionali.
Questa poi è l’internazionalizzazione in buona sostanza e fa crescere l’impresa attraverso l’apertura di ulteriori mercati rispetto a quelli in cui l’impresa normalmente opera.
Io sono molto contento di queste interviste che stiamo facendo, la settimana scorsa abbiamo avuto il presidente dell’ICE Zoppas, adesso lei. Alla fine noi pian piano a questa parola, “internazionalizzazione” (che io trovo brutta come umanista e come filosofo o parafilosofo del linguaggio) stiamo dando una semantica, un significato sempre più pieno e secondo me divulgativo, perché io trovo che in generale facciamo tanta comunicazione, come dice Floridi, ma sempre meno informazione: le cose bisogna dirle e bisogna dire anche che cosa fanno le persone e le istituzioni, perché molta gente critica ma non sa e io spero che queste interviste, questi temi su cui noi vogliamo fare racconto non istituzionale, ma attraverso un podcast, video, arrivino sempre a più persone possibili, perché noi questo dobbiamo raccontare e come lei sa. I media raccontano solo le polemiche e mai le cose che si fanno per davvero.
A proposito di andare dai primi della classe, io ho fatto teatro da giovane con De Filippo: era la prima lezione all’Università di Roma, ci disse leggetevi Guglielmo. Noi ci siamo guardati, ma chi è Guglielmo? Era William Shakespeare in italiano: anche in teatro si legge il primo della classe, che è Shakespeare, e così nell’innovazione si va dai primi della classe, nella Silicon Valley. La logica del maestro vale sempre, c’è sempre un Guglielmo che dobbiamo seguire. Il tempo è scaduto, se si è trovato bene magari tra un po’ di tempo ci facciamo un far check di un po’ di cose che ci siamo dette, solo per chiudere pochi secondi qual è il prossimo viaggio che farà, il prossimo obiettivo professionale che la occupa?
Professionalmente ci sarà l’America, per quanto riguarda il prossimo viaggio, la prossima settimana c’è un festival sull’intelligenza artificiale a Cannes: abbiamo un bel padiglione italiano con un po’ di imprese e almeno tre seminari che facciamo lì dove raccontiamo quello che l’Italia sta facendo nel tema dell’intelligenza artificiale.
Grazie a Massimo Carnelos, dirige l’Ufficio Innovazione e Tecnologia Start-up, presso il Ministero degli Esteri: avete sentito una biografia di conoscenza di questa materia e anche del mondo, perché ripeto ormai il mondo lo dobbiamo raccontare bene, sennò rimaniamo chiusi solo nel nostro cosiddetto territorio. Grazie del tempo e della disponibilità.
Magari ci sentiamo più avanti per fare un po’ il punto su questa materia che è determinante per la nostra economia e per il nostro futuro.
Grazie ancora e grazie a voi che avete seguito questa nuova puntata di Ritratti di Buongiorno America. Appuntamento alla prossima, arrivederci.