Chrysler Building a New York

Che fine farà il Chrysler Building?

Tra pignoramenti e abbandono da parte degli affittuari, ancora oggi il Chrysler Building, sebbene resti uno dei simboli di New York, continua a vivere in uno stato di semi abbandono

Se avete mai visto un film ambientato a New York, allora sicuramente avete visto anche lui: presente in celebri pellicole come Godzilla, con la classica immagine del mostro che si arrampica fino alla cima, ma anche in Spiderman, per citarne un altro, il Chrysler Building, con il suo stile inconfondibilmente art déco, è uno dei grattacieli più importanti e simbolici della Grande Mela.

Costruito a partire dal 1928 su desiderio di Walter Percy Chrysler, fondatore dell’azienda automobilistica statunitense Chrysler – ora parte di Stellantis -, il grattacielo venne inaugurato nel 1930 e fu, per un anno, anche il grattacielo più alto del mondo, raggiungendo i 319 metri di altezza – venne poi superato dall’Empire State Building.

Il Chrysler Building consta di 77 piani, con la punta ispirata al radiatore di un’auto. Appena costruito, divenne subito un simbolo del lusso e del potere, celebrando la modernità ed il progresso che si respirava a New York in quegli anni. Per Chrysler si trattava di un “monumento a me stesso”.

Tuttavia, la parte di storia più felice del grattacielo è durata solo una quarantina d’anni. Già nel 1953, tredici anni dopo la morte di Chrysler, l’edificio venne venduto ad un imprenditore immobiliare e poi ad una serie di altri proprietari, tra società ed investitori. Dagli anni Settanta, nonostante il riconoscimento come sito d’interesse storico nazionale, iniziò a presentare un conto amaro ai suoi proprietari: tra tasse e costi di manutenzione, l’edificio cominciò ad essere più un peso che un investimento.

Tra pignoramenti e abbandono da parte degli affittuari, ancora oggi il Chrysler Building, sebbene resti uno dei simboli di New York, continua a vivere in uno stato di semi abbandono. Chi ci vive o lavora, racconta di un edificio per lo più deserto, infestato da insetti e pieno di guasti e malfunzionamenti, in crisi di fronte ad opzioni più moderne e ben manutenute.

Il Chrysler Building, effettivamente, ha perso parecchio del suo splendore. Superate le porte girevoli dell’ingresso, che spesso si incastrano costringendo i frequentatori ad usare altre entrate, la hall ha mantenuto la sua maestosità grazie anche al suo marmo marocchino rosso ed il murale che si staglia sul soffitto, opera di Edward Trumbull. Basta non concentrarsi troppo sui dettagli, come le crepe coperte col nastro adesivo o i negozi chiusi, come quello di Amazon Go.

Non stupisce, dunque, che sui quasi 120.000 metri quadrati, oltre 60.000 sono sfitti, come si evince anche dal sito stesso dell’edificio. Il costo al metro quadro per l’affitto degli spazi è comunque più basso di quello di grattacieli simili, ma resta particolarmente elevato rispetto alla zona, soprattutto contando quel poco che offre: il Chrysler Building, ad esempio, non dispone di terrazze panoramiche come l’Empire State Building, e la disposizione degli spazi non è ottimale: su alcuni piani, anche se si affitta l’intera pianta, non si può percorrere il perimetro per via della disposizione di alcuni locali tecnici, costringendo a volte a fare l’intero giro dell’edificio per raggiungere l’estremità opposta.

Nel 2008, la maggior parte del Chrysler Building venne acquistato per circa 800 milioni di dollari dall’Abu Dhabi Investment Council, una società legata al governo degli Emirati Arabi Uniti, che a sua volta lo cedette poco più di dieci anni dopo alla società immobiliare di New York RFR ed al gruppi immobiliare austriaco Signa, per soli 150 milioni di dollari – un quinto della spesa iniziale. Il piano di RFR era quello di trasformare il Chrysler Building in un albergo, ma non è andata più così anche per via degli elevati costi di locazione.

Il terreno dove sorge è infatti di proprietà della Cooper Union, una società privata che chiede ai proprietari dell’edificio un canone annuale. Quest’ultimo è passato dai 7 milioni di dollari l’anno richiesti nel 2018 ai quasi 30 milioni richiesti oggi. Non sorprende allora sapere che a dicembre la Signa ha presentato istanza di insolvenza ad un tribunale austriaco.

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