Sirat, Laxe: “una pallottola d’argento nella mia pistola, sono molto pericoloso”

Incontrato in conferenza stampa, il regista racconta Sirat, l’amore per il cinema italiano e risponde alla nostra domanda su Hollywood e la corsa agli Oscar

“Purché se ne parli”. Non c’è detto migliore per raccontare Sirat, l’ultimo, radicale film di Oliver Laxe. Il New York Times si è chiesto se sia il film più terrificante dell’anno; la Spagna si è spaccata tra chi lo osanna e chi lo respinge aspramente. In Italia se ne parla ancora poco, arriverà nelle sale l’8 gennaio, noi però lo abbiamo visto in anteprima, e first reaction, shock.

Sirat consacra ufficialmente il passaggio di Laxe dal cinema di autore al grande pubblico: presentato al Festival Cannes 2025 ha vinto il Premio della Giuria e diversi altri riconoscimenti internazionali, è nella shortlist degli Oscar 2026 in cinque categorie tra cui Miglior Film Internazionale ed è candidato a quattro European Film Awards.

Definire la pellicola è quasi impossibile. È un rito, una catarsi, una terapia d’urto. Per Laxe, incontrato in conferenza stampa, è “una storia eroica, di avventura, fisica ma anche interiore e metafisica”. Un film che nasce da una ferita e che alla ferita torna, perché – dice – “Sirat è la forma migliore che ho trovato per aver cura”.

Sicuramente non è un film per tutti. Per apprezzarlo bisogna essere disposti a parteciparlo, non solo con la mente ma con il corpo. Ti coinvolge totalmente ma per farlo richiede fiducia e perdita di controllo. Come in un rave, esperienza attorno alla quale Sirat prende forma e si consuma.

La trama non è lineare. Un uomo (Sergi López) arriva con il figlio piccolo a un rave nel profondo del deserto marocchino, alla ricerca di Mar, la figlia maggiore, scomparsa mesi prima durante una di queste feste infinite e senza sonno. Circondati dalla musica elettronica e da un senso di libertà crudo e sconosciuto, mostrano la sua fotografia ancora e ancora. La speranza si affievolisce, ma resistono e seguono un gruppo di ravers verso un’ultima, misteriosa festa nel deserto. Addentrandosi nella terra bruciante, la ricerca si trasforma in un’odissea che li costringe a confrontarsi con i propri limiti.

Il titolo è la prima chiave di lettura. Sirāt significa “sentiero”, “via”: un percorso che ha una dimensione fisica e una spirituale. È “il cammino interiore che ti spinge a morire prima di morire”, spiega Laxe, ed è anche il ponte che, secondo la tradizione islamica, collega inferno e paradiso. Un film che non accompagna lo spettatore, ma lo mette alla prova.

Laxe ci ha messo 12 anni a concepirlo, racconta di aver vissuto a Tangeri, “chiamato dal deserto”, e poi per cinque anni in un’oasi. “I film sono fatti di immagini – io sono un cineasta di immagini e di intenzioni – e solo dopo arrivano le spiegazioni”. L’intenzione, qui, era radicale: “Volevo che lo spettatore, e io stesso guardando il film, morissimo. La morte come porta verso l’eternità”. Sirat diventa così una cerimonia funebre che apre alla trascendenza o, più semplicemente, a una vita vissuta con maggiore consapevolezza.

Dal punto di vista produttivo e creativo, il film è stato un salto nel vuoto. Dopo opere più intime, Laxe si è confrontato con una macchina complessa, molti effetti, una troupe numerosa. Serviva un attore capace di attraversare il film senza dominarlo. Da qui la scelta di Sergi López, interprete che – nelle parole del regista – permette di costruire una maschera, destrutturarla e ricominciare da zero, lavorando per intuizioni e creando un legame immediato con lo spettatore.

López, dal canto suo, racconta l’esperienza come una vera rivelazione. “Io faccio quello che posso”, dice con disarmante semplicità. “Questo film per me è stato una rivelazione: sono stato forzato a entrare in trance e a lasciare che il mio corpo desse risposte che io non avevo”. Un processo che ha richiesto abbandono: “Provo a lasciarmi andare”.

Fondamentale, per lui, il confronto con un cast composto in gran parte da attori non professionisti, trovati da Laxe “con un casting selvaggio” nei rave di Italia, Spagna, Francia e Portogallo – tra cui anche l’italiana Stefania Gadda. “Recitare con attori non professionisti è stato di grande ispirazione”, spiega López. “L’ideale è trovare naturalezza, recitare senza recitare. Tutti noi attori vogliamo che non si noti che stiamo recitando, e stare a contatto con persone più spontanee aiuta moltissimo”. Per entrare in contatto con il pubblico, aggiunge, bisogna far credere che ciò che si sta mostrando è reale.

Per López, che viene dall’arte di strada e dal teatro, il rapporto con la recitazione è sempre stato ludico, istintivo. Sirat ha però aperto un’altra dimensione: “Con questo film ho scoperto una relazione più profonda: giocare con un personaggio significa donare il corpo e lo spirito”.

La musica è l’altro grande motore del film. “Io ho ballato questo film, l’ho scritto ballando”, racconta Laxe. La sua scrittura è atmosferica, guidata dalla musica, che in Sirat si trasforma: da catartica a sempre più mentale, fino a diventare quasi trascendentale. “Volevo che la musica si smaterializzasse poco a poco”. L’obiettivo è portare il cinema dove la musica riesce a sospendere la percezione razionale. Non a caso, Laxe definisce Sirat “una terapia shock”.

Il film è abitato da un dolore profondo, personale e collettivo. “Tutti noi siamo rotti”, dice il regista. “La ferita è sottile, ma c’è”. La grazia, per lui, “è nei disgraziati”, e non sorprende che il cast sia composto da corpi imperfetti, vulnerabili, attraversati dal limite.

Non manca una riflessione politica e linguistica sul cinema. Laxe parla apertamente di una “lotta contro il fascismo della chiarezza” e contro la retorica che svuota le immagini del loro potere. “Il regista è il peggior nemico della sua opera”, ammette, rivendicando la necessità di controllo e distanza per proteggere le immagini fino al montaggio, affinché non arrivino allo spettatore già morte.

Centrale, nel suo percorso, è anche il rapporto con il cinema italiano. Laxe non nasconde la sua ammirazione per Visconti, Fellini, Pasolini e Antonioni, maestri che considera fondamentali nella sua formazione. “Qui c’è l’eccellenza”, dice, riconoscendo al cinema italiano un ruolo decisivo nel suo immaginario.

Alla domanda se si aspettasse il successo o meglio, l’“esplosione” del film, Laxe risponde parlando di fiducia: nelle immagini, nello spettatore, nella capacità del cinema di “curare l’immaginario collettivo”. Sirat parla solo di cose essenziali: vita, morte, famiglia. E di tradizione. “Non mi chiedo perché le persone muoiano, ma come. Fra vent’anni vedremo se Sirat avrà raccontato le paure e i sogni del nostro tempo”.

Quando gira, racconta di sentirsi distante, come se osservasse da lontano. Ma una volta concluso il film, lo specchio è inevitabile: “Io sono uno da rave”. Sirat è la celebrazione della sua ferita, un atto di accettazione e di fede: accettare che ciò che la vita ti offre, anche attraverso la tragedia, sia un regalo.

E quando gli chiediamo se la corsa agli Oscar, Hollywood, gli faccia paura, Laxe ribalta definitivamente il tavolo. Sorride e dice: “Al contrario. Sono molto contento, mi sfrego le mani. Ho una pallottola d’argento nella mia pistola, sono molto pericoloso”. Poi conclude con una dichiarazione che è insieme promessa e avvertimento: “Andremo ancora più lontano. Con questo film ho capito il messaggio: quello che la gente vuole è buttarsi nell’abisso. Come ho fatto io”.

Immagine di Cecilia Gaudenzi

Cecilia Gaudenzi

Giornalista professionista e storyteller. È nata a Roma nel 1991 “sotto il segno dei pesci”, dove si è laureata con lode in Scienze Politiche, all’Università di Roma Tre e dove vive stabilmente. Musica, cinema, letteratura, politica, serie tv, podcast, reportage e terzo settore. Il vizio di scrivere, di tutto e su tutto ce l’ha fin da bambina. Le piace conoscere, capire, raccontare e soprattutto, fare domande. Crede nello scambio di idee e nella contaminazione. Ha girato l'Africa per dare voce all'impegno di donne e uomini che dedicano la loro vita agli altri. La sua parola preferita è resilienza.

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