«Pensavamo di avere tutto il tempo del mondo», dice Sam Worthington parlando di Jake Sully, ma in fondo anche di sé. Pandora gli ha occupato più della metà della vita adulta: un personaggio nato come fuga, diventato famiglia, poi peso, poi ancora radice. Nel nuovo capitolo, Avatar – Fuoco e Cenere, in uscita il 19 dicembre 2025 negli Stati Uniti e il 17 dicembre in Italia, Jake comprende che ciò che gli resta non è infinito: lo spazio per proteggere chi ama si restringe proprio mentre il conflitto avanza e i figli crescono troppo in fretta per potergli stare dietro.
A Milano, dove il cast si è ritrovato, è chiaro come la saga di James Cameron sia diventata, a questo punto, una specie di diario involontario delle persone che ci lavorano dentro. Il primo film era un rito di passaggio, quasi ingenuo nella sua fiducia in una rivoluzione tecnologica che avrebbe cambiato il cinema. Il secondo ha portato l’acqua, la morte, la famiglia come ultimo rifugio. Il terzo, spiegano gli attori senza giri di parole, è più ampio, più duro, più vicino a certe fratture personali.
La trama si infila esattamente in questa logica. La famiglia Sully, sopravvissuta alle ferite del capitolo precedente, viene trascinata in un conflitto che a Pandora si espande come una radice bruciata: nuovi clan da incontrare, i temuti Ash People, un’aria più feroce, un territorio che si allarga e si spacca. E soprattutto: Quaritch non è più solo il nemico — «un tizio brutto», per dirla con Stephen Lang — ma una figura crepata, piena di contraddizioni, quasi costretta a essere altro da sé. «Ogni villain è l’eroe della propria storia». Funziona perché non lo sta giustificando. Sta descrivendo un mestiere.
La nuova generazione è la parte più scoperta del film. I ragazzi di Pandora non sono nati per combattere. «I bambini della guerra», li chiama Jack Champion, che interpreta Spider come un sopravvissuto permanente. Bailey Bass e Trinity Bliss parlano di “famiglia scelta”, “connessione”, “somiglianze che superano le differenze”: non è idealismo. È il modo in cui i loro personaggi cercano luce in un ecosistema che ormai li ha segnati.

Sul piano tecnico, gli attori raccontano che lavorare con la performance-capture non significa pensare alle macchine, ma eliminarle. Non c’è set tradizionale, non ci sono dolly o fari che distraggono: resta solo la scena, l’altro attore e Cameron che dirige da vicino. «È più intimo di quanto sembri», spiega Worthington. In pratica: la tecnologia lavora dopo. Sul momento, è quasi teatro.
In mezzo a tutto questo scorre il tema che Cameron ripete da vent’anni: la connessione. Non come concetto morale, ma come condizione biologica. «Siamo tutti legati, australiani, americani, italiani», osserva Worthington. Bass lo vede ogni giorno: «Sul set ci insegnano a non sprecare niente. È piccolo, ma cambia il modo in cui guardi il mondo».
Pandora non è una metafora costruita; è uno specchio, un promemoria di quanto un pianeta – qualunque pianeta – viva di equilibri fragili. Le domande sull’ambiente, sulla responsabilità, sulla speranza non vengono trattate come tesi: sono il contesto in cui la storia respira: «È il percorso dell’umanità», dice Lang. «Un passo avanti, due indietro. Ma il movimento è sempre verso la luce». Bass parla dell’ONU, dell’advocacy per gli oceani, della responsabilità personale. Bliss aggiunge che la generazione Z ha bisogno di ritrovare rituali collettivi, cinema compreso.
La saga assomiglia sempre più a un osservatorio di comportamenti umani. Quando un sistema si incrina — Na’vi o terrestre che sia — la risposta segue quasi sempre lo stesso schema: difendersi, attaccare, bruciare, provare a ricostruire. Fuoco e Cenere mette a nudo il meccanismo: una perdita ne genera un’altra, e in quella frizione si decide chi si lascia trascinare e chi prova, anche solo per un istante, a deviare il corso.
Le nuove culture introdotte — i Mercanti del Vento e il Popolo delle Ceneri — dilatano lo spazio etico del racconto. Una Pandora che guarda in alto, fedele alla leggerezza del cielo; un’altra che vive nell’ombra di ciò che ha perso. Due modi diversi di affrontare lo stesso punto di rottura: restare fermi nella ferita o tentare una forma di futuro, anche minimo.




