Il segreto della pizza napoletana: vita e sogni di Rosario Granieri

Ho iniziato a pensare all'America nel 1996. Perché proprio ‘96? Quell’anno si è sposata mia sorella e mio padre aveva questo cugino americano, che oggi non c'è più. Si presenta con questo codino bianco, uno stile quasi texano, che ti faceva dire “mamma, ‘o zio d’America che ha fatto nu cuofan e sold”

Quando Rosario Granieri ti parla della sua Napoli, lasciata quando aveva 14 anni e di quel “mestiere d’oro” – l’arte del pizzaiolo – che gli ha permesso di viaggiare per tutto il continente americano, i suoi occhi si illuminano e rivelano un’anima da vincente, disposto a non fermarsi mai quando si tratta di rincorrere i propri sogni. Oggi la sua pizzeria e ristorante, Pizza Secret a Park Slope, Brooklyn, è nella Top 50 Pizza USA, un autentico presidio della pizza napoletana a New York. In una chiacchierata piena di spunti, ci ha raccontato il suo percorso da Scampia agli Stati Uniti, la sua personale formula di resilienza durante il Covid, le sue ambizioni e nostalgie: una vera e propria incarnazione del sogno americano oggi.

Rosario, partiamo dall’inizio: sei nato a Napoli, in un quartiere come Scampia, con le sue complessità. Quando hai capito che te ne saresti andato?

C’è da dire che il quartiere, sì, è un po’ complicato, ma sono cresciuto in una famiglia numerosa, ultimo di nove figli, come figlio d’arte: mio nonno era un pasticciere, mio padre era pasticciere, cuoco e chef. Quindi sono cresciuto lavorando. All’età di 6 o 7 anni ho infornato la prima pizza. Ero sempre in pasticceria, al ristorante o nella pizzeria di mio fratello, circondato da persone che fanno questo mestiere, visto come un obiettivo da raggiungere. Perché se c’è un fratello maggiore che fa questo, naturalmente dici “Oh, voglio imparare”, quindi ti metti là a tagliare le prime palline di fiordilatte o a impastare con lui. Mi ha aiutato a crescere più velocemente, con la mentalità di fare proprio questo che è un mestiere d’oro, che ci aiuta a girare il mondo. Prima ancora di andare via, però, già mi ero messo una volta in proprio con mio fratello, preparando e vendendo le pizze fritte giù al rione di fronte alle “bullett” clandestine (ride, Ndr). Io avevo 9 anni, lui 16, lui le preparava, io le friggevo. Il primo business lo abbiamo fatto in the streets di Napoli. Il vero street food, amo ancora oggi prepararle. La decisione di andare via da Scampia poi è arrivata la prima opportunità, quella di andare a Salerno con Rossopomodoro, all’età di 14 anni, ho pianto per una giornata intera quando ho fatto il primo biglietto Napoli-Salerno. Non volevo andare, ma il lavoro era ottimo, e ho avuto la mia prima esperienza.

Quindi hai fatto Salerno, poi sei andato a Milano, quindi a Roma….

Dopo Salerno, sono stato a Milano un anno e due mesi, poi a Roma quasi quattro anni.

E poi, il grande salto,, con la decisione di venire negli Stati Uniti, a Washington, nel Maryland…

Non è che davvero deciso: in un’estate romana, avevamo nel patio due clienti napoletani già radicati a Washington. Stavano per aprire un ristorante ma non avevano il pizzaiolo. Si sono innamorati della mia pizza e siamo rimasti in contatto. Ricordo che a quel tempo non c’era Skype, non c’era FaceTime, ci contattavamo su MSN, sai MSN, e andavamo nei coffee center per internet, mamma mia, cos’era, no? Voglio dire, compravi le schede da 5 dollari per chiamare in Italia. Un’altra era. più dura, anche se alla fine parliamo di 15, 16 anni fa. Era diverso stare fuori. Essere fuori, sì, sì. Oggi anche mia madre o anche mio padre che ha 80 anni ti fanno la videochiamata.

Quindi ti hanno proposto di andare lì e aprire questa pizzeria. Quanto ci hai dovuto pensare?

Sì, mi hanno offerto di aprire Oropomodoro a Washington, D.C. Non ci ho pensato neanche due volte. Avevo un’opportunità anche a Londra sempre con Rossopomodoro, ma il mio datore di lavoro voleva che restassi a Roma. E dopo due settimane, arriva l’opportunità dall’America. Mi son detto, “ok, non vuoi che vada a Londra, allora vado in America”. Non avevo nemmeno il passaporto, ho fatto tutto di corsa. È stata una delle decisioni più rischiose e belle che abbia mai preso.

Ricordi di aver mai coltivato un sogno americano già da bambino o ragazzo, o in realtà il pensiero è arrivato con l’opportunità?

Ho iniziato a pensare all’America nel 1996. Perché proprio ‘96? Quell’anno si è sposata mia sorella e mio padre aveva questo cugino americano, che oggi non c’è più. Si presenta con questo codino bianco, uno stile quasi texano, che ti faceva dire “mamma, ‘o zio d’America che ha fatto nu cuofan e sold”. E lui, già negli anni 70, ha iniziato a comprare case qui a Posillipo, a Mergellina, lasciando un patrimonio immenso. Quindi già da bambino avevo questo pensiero fisso: “me n’aggia ì in America”.

Com’è stato l’ambientamento quando sei arrivato a Washington?

Ero giovane, non capivo tante cose. Ricordo che le prime due settimane son state molto difficili, avevo questo studio lì nel Maryland dove mi chiudevo, mi sedevo per terra e piangevo, onestamente. Piangevo perché mi mancava la mia famiglia, non parlavo inglese, ero in un altro mondo, gli orari erano diversi, non avevo contatti come oggi. Ma poi piano piano, sai, incontrando nuove persone, amici, mi sono inserito in una comunità di italiani lì.

Quando e come è arrivato poi il salto a New York?

È stato a gennaio 2012, perché sono stato contattato dai responsabili di Rossopomodoro. perché avevo lavorato con loro in Italia e cercavano una figura che già conoscesse il mercato americano e la loro azienda in Italia. Sono venuto qui come responsabile del Nord e Sud America con loro a 23 anni, una buona posizione. Mi sono davvero divertito molto curando diverse aperture in giro per il continente, a Chicago, in Brasile, ecc.

Da quell’esperienza qual è la tua panoramica e la tua idea dgli Stati Uniti? È vero, come molti dicono, che New York non è affatto l’America?

Te lo confermo, l’America del Kentucky, dell’Arizona, di Nashville è un altro mondo. New York è un misto tra Europa e Sud America, c’è tutto qua. È totalmente diverso da Stati come la Virginia o il West Virginia. Qui, onestamente, non so, magari puoi dirlo anche tu, ti senti un po’ a casa. Io amo Brooklyn. Vivo qui dal 2012 e ho anche l’attività dal 2018. Mi sento davvero a un passo dall’Italia. Se hai un mal di testa e vuoi tornare, vai a New York e, da qualsiasi aeroporto, prendi il primo volo e vai in Italia. A Los Angeles o in altre parti degli States, non è così semplice, tornare in patria è un mezzo casino.

In un certo senso, Rosario, tu puoi rappresentare l’incarnazione dell’idea originaria del sogno americano, così come ci è stato a lungo raccontato e come oggi, in molti, sostengono non esista più. Nato da una famiglia numerosa, quindi con non troppe prospettive in Italia, arrivi qui e dopo anni di duro lavoro apri il tuo locale. Come si arriva a questo?

Cerco di spiegarlo in maniera semplice. È un duro lavoro duro di tanti anni, conservando un po’ di soldi per costruirti un credito americano. Dopodiché devi solo rischiare, che ti vada bene o male. Il salto di qualità arriva dopo anni, soprattutto se come me decidi di affidarti solo alle tue capacità e ai tuoi risparmi. Devi investire. Se non investi, non ti realizzi.

E qui arriviamo al ristorante che ti ha reso famoso, amatissimo dalla comunità italiana a New York, ma anche tra tantissimi americani e non solo quelli che amano la cucina italiana, che è Pizza Secret a Brooklyn. Raccontaci come hai individuato la location, come è nato il nome e il concept…

Il nome nasce per i social. Nel 2011 ho aperto Instagram e Rosario Granieri era un nome molto difficile per un americano da scrivere e cercare. Così ho iniziato a pensare ai segreti della pizza, in inglese, Pizza Secret. Un nome catchy, come si dice qui, facile da ricordare, che una volta pronunciato, rimane in testa. Il locale nasce dopo due anni di ricerche. Il mio  primo obiettivo era aprire a Manhattan ma, per vari motivi, non ho chiuso un paio di deal. Dopo due anni, è venuta fuori l’opportunità di prendere questo locale, che si chiamava Peperoncino all’epoca, una trattoria. Non valorizzavano il forno, che è uno dei più antichi di New York. È un forno storico, fatto da un paesano nolano, nel ‘78 se non sbaglio. Quello che mi ha attratto è stato proprio il fatto che il forno avesse una sua bellissima tradizione. Tra l’altro, quando ero bambino, piangevo perché volevo sempre come regalo di Natale, un giocattolo promosso in TV che si chiamava Forno Gennarino e cucinava davvero le pizze. Quindi quando mio padre me lo ha regalato, ero molto felice e mi son promesso un giorno di aprire una pizzeria e ribattezzare il forno Gennarino. Quindi questo è il forno Gennarino per me. L’ho anche menzionato nella trasmissione Little Big Italy con Francesco Pannella, e stiamo per festeggiare i sei anni di Pizza Secret qui a Park Slope. Mi sono tolto davvero tante soddisfazioni, non potevo immaginare di meglio. Tutto grazie al duro lavoro. I primi due anni non ho avuto vita, onestamente. Ho lavorato ogni giorno senza spendere soldi per altri pizzaioli perché dovevo pagare i miei debiti. E poi dopo due anni è arrivato il COVID. Voglio dire, “un napoletano s fa sicc ma non more”.

Come hai resistito in quel periodo?

Eh ho mangiato meno (ride di gusto, Ndr). Sto scherzando. Ho stretto i denti e sono andato avanti. Per tre mesi siamo stati chiusi. Avevo tanto cibo in magazzino e l’ho usato per fare tanta beneficenza, per mesi. Vivevo nel palazzo qui accanto. Ogni giorno scendevo e preparavo 100 piatti di pasta e andavo poi a distribuirli ai più bisognosi. Un giorno, mi ha contattato Rai International per un reportage e mi hanno seguito mentre preparavo e distribuivo il cibo. Quell’attività mi ha dato forza interiore, mi ha aiutato ad accettare la chiusura. E poi, piano piano, mi sono rimesso in piedi. Quando hanno tolto le restrizioni, ho ricominciato da solo a fare le pizze. Poco a poco, ho assunto altre persone e, grazie a Dio, siamo andati avanti.

Come avrai avuto modo di osservare negli anni, negli Stati Uniti c’è un’idea di pizza che è leggermente diversa da quella a cui siamo abituati in Italia, però si sta consolidando e diffondendo la pizza napoletana.

Assolutamente, ricordo bene com’era la situazione qualche anno fa. Quando arrivato andato a Washington, eravamo la seconda pizzeria napoletana tra Washington, Maryland e Virginia. Era molto difficile far capire all’americano che quella era la pizza autentica, la prima pizza inventata. Ma piano piano, la gente ha iniziato a provarla, ad apprezzarne sempre più la materia prima e la digeribilità, arrivando a capire che è un prodotto che esiste da 300 anni e che andrà per sempre. A New York, invece, la mentalità è un po’ più aperta, più europea. La gente ama imparare nuove culture. Quindi la pizza napoletana è molto più riconoscibile e riconosciuta a New York rispetto agli Stati.

Qual è stato secondo te il segreto per far sì che il rischio di cui parlavi prima si trasformasse in un successo?

Secondo me, ciò che ha fatto andare tutto per il meglio è stato il non mollare. Non mollare. Andare avanti. Usare sempre buone materie prime. C’è una citazione di Muhammad Ali che suona così: “se cadi a terra sette volte, all’ottava rialzati”. Ogni ostacolo è fatto per essere superato. Quindi se ti arrendi nei momenti difficili, non avrai la forza di andare avanti. Per avere successo nella vita, devi essere tenace. Venendo alla pizza, il segreto è mantenerla sempre di alta qualità. Nel mio locale, non mi piace modificare il mio prodotto, la pizza napoletana resta così e vado avanti.

Qui nel quartiere, hai detto che non c’era visibilità, giusto?

Questa era una trattoria italiana, come ti raccontava prima, dove non valorizzavano il forno, Facevano la pizza, sì ma poi nel forno cucinavano anche il pesce o la carne. Mentre io ho iniziato solo con la pizza, centocinquanta o duecento pizze sfornate al giorno, con gli ultimi cinquecento dollari conservati che mi sono serviti per comprare la farina, il pomodoro, il lievito i primi mesi.

Qual è stato il momento più difficile e quello più bello, della realizzazione?

Uhm, il momento più difficile è quanto la polizia è venuta al locale per il Covid a dirci di chiudere. Una doccia fredda, anzi di ghiaccio, non avevo idea di come sarebbe andata a finire con gli affitti, con i ragazzi, con il cibo. Però niente “I give up”. Dopo anni di sacrifici, mi son detto “sono a metà strada, proseguo”. I momenti più belli sono proprio quelli di oggi, sento di avere una libertà economica e posso andare in giro, perché ho organizzato bene il ristorante e il prodotto è sempre ottimo. Posso vivermi la famiglia, come non ho mai fatto dai 14 ai 36 anni. Mia madre l’ho vista poco e niente, da quando sono partito tanto tempo fa. Sto vivendo la mia vita nel miglior modo possibile anche con la famiglia quando torno in Italia. L’anno scorso sono andato in vacanza portando mia madre e mio padre dove loro stessi mi portavano da bambino, a Pescara. Grazie all’America, posso farlo oggi. Penso poi che sia un sogno di tutte le persone che partono, quello di rientrare e finire la vita nella propria città. Il mio obiettivo, che mi sono posto tra massimo 15 anni, è quello di aprire una pizzeria a Napoli. A 50 anni, dopo una vita fuori, a chi non piacerebbe avere una bella barchetta e dormire di notte nel golfo di Napoli? Sarebbe un sogno, no?

Cosa ti manca di più di Napoli, del Sud, dell’Italia?

Il mare, il sole, la gente. Questa è la cosa che mi manca di più, quella vita semplice, fatta di passeggiate a Mergellina, il privilegio di mangiare un tarallo e godersi una birra sul Lungomare, oppure prendere un gommone e andare a Procida, l’odore del mare, la vicinanza della famiglia. Questo è quello che mi manca della mia città, la semplicità nel vivere le giornate. Mio padre a volte mi racconta che dopo la guerra – lui è nato nel  ’43 – a Napoli, con una patata mangiavano cinque persone. Qui a New York, sembra tutto più difficile. Se vai a cena fuori, ci vogliono tanti soldi. Quella semplicità di prendere un chilo di patate, mangiamm past e patan in dieci persone e stiamo a posto. Sono proprio le cose semplici quelle di cui sento più nostalgia.

Ma c’è anche l’idea di aprire altri ristoranti o pizzerie qui negli Stati Uniti o al momento sei focalizzato sul primo Pizza Secret?

Sono una persona super ambiziosa. Vorrei aprire un ristorante a Manhattan e sto cercando un locale tra Greenwich Village, West Village, SoHo. Le altre aree le eviterei perché sono un po’ più scomode da un punto di vista dei trasporti e della logistica.

E invece a Napoli dove l’apriresti la tua attività?

Il pensiero è sempre lì, fisso, fuori al mare, a Santa Lucia, a Mergellina. Sono quelle le aree che sogno. Con la famiglia abbiamo una pizzeria aò Rione Sanità, una pizzeria a Nola, una a Caserta, ma da napoletano verace, quando vedo il mare, il Vesuvio, il castello…

Chi è stato il tuo modello da seguire e chi ti ha ispirato da bambino?

Quando penso a un modello, penso a mio padre. Volevo proseguire la carriera che ha fatto lui, come ristoratore. Mio padre aveva un hotel in Calabria, dal ’96 al ’99. E poi ha aperto vari locali. Come pizzaiolo, puntavo tanto a raggiungere il livello dei miei fratelli maggiori. Ma come imprenditore miravo a essere come mio padre, che ha fatto davvero tantissimo nella sua vita.

Ovviamente, da napoletano verace, hai un rapporto privilegiato con il mondo del calcio… Eh sì, l’anno scorso abbiamo vinto il terzo Scudetto, e abbiamo contattato un ragazzo che fa i murales per dedicarne uno qui, fuori Pizza Secret, proprio a quel successo storico e a Maradona. E poi abbiamo un progetto di sponsorizzazione in corso con una scuola calcio. L’idea me l’ha data Peter Ciaccia, un mio cliente e un grande amico mio. Mi ha dato questa idea. Un giorno ho detto, cosa ne pensi di sponsorizzare i Brooklyn Italians? Per me è stato un onore, perché immagina quanti business ci sono a New York che avrebbero potuto rappresentarli. Facciamo un riassunto: un ragazzo che faceva pizze fritte in mezzo alla strada a Scampia, nei mercati, a 9 anni, viene a New York, si mette in proprio e fa mille lotte per rimanere in America, ti arriva questa richiesta e ua, davvero sono stato felicissimo. Vedere Pizza Secret su quella maglietta è come vedere il mio stesso nome, Rosario Granieri. È una cosa fantastica. La stagione è appena iniziata e sabato vedremo la seconda partita. Anche tu sei invitato, se vuoi venire. Qui. Vieni qui e dici, Ehi, ci vediamo qui con mio padre. Vedremo la partita alle quattro. E niente, ora vado a fare una bella pizza fritta che ve la faccio assaggiare.

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Marco Costante

Classe 1990, Marco G. Costante è autore, copywriter e ghostwriter tarantino. Storico per formazione accademica, marketer per deformazione professionale, è tra i fondatori de L’Olifante, collana di libri di approfondimento musicale, e scrive di musica, marketing e reputazione per i magazine SMMAG! e Reputation Review. Innamorato fin da bambino della cultura e degli sport a stelle e strisce, ha recentemente contribuito al saggio Against Stereotypes - The Real Reputation of Italian American di Davide Ippolito.

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