Il film Barbie è in onda in questi giorni in tv. Ho cercato di capire quale sia il suo messaggio, calcolando che nel cinema la forma è già il contenuto.
Partirei dalla figura di Greta Gerwig, regista di Barbie. Educata in una scuola cattolica, fa parte della Universalist unitarian church, che meritoriamente cerca di farla finita con le beghe tra le religioni, cosa non facile, dato che alcune di queste sono peggiorative e violente (non solo l’islamismo radicale). Gerwig ha diretto anche film “vittoriani” come Piccole donne. Giurerei che è -come me- una fanatica lettrice di Jane Eyre di Charlotte Brontë e di Tess dei d’Urberville di Thomas Hardy, due romanzi (e due film) per i quali stravedo.
Aggiungerò che Greta Gerwig ha diretto anche Lady Bird, girato nel 2017, perfetto e non ideologico, con una già notevole Saorse Ronan (la pronuncia del suo nome gaelico è “Sa(or)sha”).
Leggendo le critiche ho trovato un po’ di mononucleosi intellettuale: è vero che “non è un inno alla riconquista femminista del mondo”, ma comunque è il sintomo “di quanto il sessismo legato ai giochi sia radicato. Un film che parla alle donne”… grazie alla bambola che più di tutte le rappresenta. Per l’inglese The Guardian è “Una favola femminista” che smonta Barbie e soprattutto Ken e il suo delirio patriarcale.
Il New York Times si è domandato: “Può una bambola con un sorriso seducente, curve impossibili e tette pronte al decollo essere un’icona femminista?. La conclusione è migliore: “Barbie è stata sempre un punto caldo della guerra culturale”. Ciò avviene perché è una mutaforme in grado di incarnare le bambine/donne come sono e come erano dagli anni ’50 del secolo scorso.
La critica quindi si focalizza soprattutto sul femminismo di Barbie, anche se non più in forma radicale.
La bambola mutante
Le Barbie sono e sono state diverse, predisposte in un “playset” come la Barbie veterinaria, quella asiatica etc.; mentre le bambole Lenci avevano un abito e una forma sole, e venivano trasformate da bambine che le dirigevano e le rendevano attrici di storie da loro inventate.
In questo senso la Barbie era già precotta alla sua nascita come è (quasi) tutto oggi.
Sui giocattoli precotti conviene aprire una finestra: i Lego fino agli anni ‘80 consistevano in una scatola in cui c’erano i mattoncini, qualche tetto, qualche finestrella e poco altro. Con quel materiale tu dovevi e potevi costruire tutto ciò che ti passava per la testa. Barbie fa parte di questo degrado della libertà infantile, quando maschi e femmine potevano giocare insieme nel cortile senza adulti tra i piedi, mentre oggi ci sono le otto ore di scuola primaria, seguite da altre ore di scuola calcio o nuoto sincronizzato o di danza etc. sempre con un sorvegliante adulto. E’ su questo Rhodus da saltare che si sono svaporati i ragazzini delle baby gang?
E le ragazzine? E il resto?
Barbie sdrammatizza. Ma non è una “Vie en rose”, anche se il sorriso domina sempre. Il film si sviluppa con scene e situazioni che riprendono le diverse Barbie costruite dal demiurgo Mattel. Se è un pastiche è fatto bene.
Converrà ricordare “La città incantata” (2001), capolavoro di Hayao Miyazaki, il quale ha colto l’esatto momento del divenire adolescente-adulta di una bambina, tra nostalgia del tempo (non) perduto e i turbamenti inconsci per il divenire adulte, per giunta da sole con lo smartphone e la migliore amica.
Il pubblico di Barbie è formato in buona parte da donne che ricordano gli anni in cui non dovevano pensare alle “cose da fare”, quelle da cui i maschi cercano di sfuggire mutandosi in “toy boys” fino ai 90 anni. Ciò ci porta dritto alla
Guerra dei sessi
Il guerrafondaio della guerra dei sessi è Ken, con la scusa realistica che “Io non sono Ken. Sono Barbie E Ken” (dichiarazione di inesistenza: tutto il film oscilla tra reale e irreale peggio di un saggio di Jean Baudrillard degli anni Ottanta, che aveva ragione su tutto).
La guerra dei sessi non si risolve con l’Amor che tutto vince, e infatti volano botte da orbi, come nella vita dei ragazzini di sessant’anni fa, quando i negozi di giocattoli si chiamavano miyazakinamente “Il Paradiso dei bambini”.
L’accelerazione delle immagini
Barbie ha una velocità di scorrimento delle immagini e delle situazioni micidiale, più della Slapstick comedy. All’inizio ci fu la lentezza dei film post fratelli Lumière della Pathé e della Gaumont, poi arrivarono i fratelli Marx. Un’altra accelerazione la diede la Tv statunitense, mentre Sergio Leone riportava lentezza nel cinema, secondo i canoni dell’Est europeo (i cartoni Ungaro film) e quelli del cinema giapponese “classico”. La velocità nella riproduzione filmica trionfò negli anni ’80 con la videomusica, i cui canoni oggi sono quasi universali: quattro secondi al massimo per ogni inquadratura e tre minuti per ogni clip.
In Barbie ogni scena è molto breve: sono i tempi cui i giovani, iper sollecitati dalla messaggistica infinita, sono costretti.
I colori, la scena
Un sacco di anni fa mi capitò di vedere Alice nel Paese delle Meraviglie di Disney (ho scritto con altri un libro sul libro di L. Carroll). Il cinema -balneare e ad apertura estiva- era pieno di madri con prole al seguito. A un certo punto entrarono cinque o sei ragazzi sui diciotto anni, che si piazzarono due file dietro di me. Ridevano in continuazione, e quando esplodevano i colori fluo o glossy del film qualcuno di loro mugolava. Le madri gemevano in silenzio, infastidite. Uno di loro a un certo punto gridò (lo giuro): “Sono fatto come un cocco”. Gli altri esplosero a ridere. Le madri presero a inveire, e quelli se ne andarono. Erano impasticcati di acido lisergico LSD, che oggi è sostituito da cose peggiori come cocaina, anfetamine e intrugli vari. Immagino come i colori di Alice fulminassero i loro occhi ingigantiti dall’Lsd.
In Barbie domina un rosa magnetico e quasi ipnotico. Paul Virilio ha parlato del potere dello scorrimento veloce delle immagini, chiamando il fenomeno “picnolessia” perché è come lo stato di imbambolamento che prende i bambini quando guardano fuori dal finestrino in auto o treno, cosa oggi sostituita dal telefono e dai giochini.
In Barbie finzione e realtà hanno lo stesso rapporto fluido che si ha nell’infanzia più remota. Barbie e Ken vogliono entrare nella realtà di Los Angeles, sfuggire dalla nostra Hollywood quotidiana e universale. Qui non c’è femminismo o patriarcato, si tocca qualcosa di più profondo: una sfera di cristallo per entrare nella realtà su una specie di Alfa Duetto spider rosa e senza motore.
La realtà è anche scoprire di non avere genitali, non conoscere l’uso del denaro. Ken per reazione si fa bullo diventando un texano con giubbotto a frange e cappello, e se ne va a passeggio downtown, fino a far scoppiare la Kendomination: “Un giorno i Ken avranno lo stesso potere che hanno le Barbie in Barbieland”, gridano.
Ma l’amore trionfa, i due si separano ed entra in gioco la consapevolezza della fine, non dell’infanzia/adolescenza ma della vita. La creatrice-mamma dice a Barbie “Ti ho creato perché non avessi mai una fine”.
E lei risponde “Non mi sento più Barbie”, come una Alice che si ingigantisce e cambia come tutti i piccoli in crescita.
Barbie vuole creare lei le parole e non essere più soltanto una interprete: metafora delle american way of life, come ne La fonte meravigliosa di Ayn Rand o come avviene nel cinema impossibile quando l’attore si stanca di recitare tutti ma senza essere se stesso.
La creatrice-mamma insiste, ma Barbie risponde freudianamente: “Dammi il permesso di essere umana”.
La ex bambola si registra come Ann Barbara e per prima cosa va dalla ginecologa, come una perfetta neodonna.
Ma prima ha un incubo: vede una bambina che ripone la sua Barbie in una scatola, una cosa “dolorosa”. Un film non didascalico o politicamente corretto, questo è il suo maggior pregio.