La domanda è: c’è ancora il sogno americano, o meglio, c’è un nuovo sogno americano alla luce di tutti gli sconvolgimenti geopolitici in atto? Per la mia generazione, quella dei boomers, cinema, musica e media sono ancora punti di riferimento estetico e industriale, nel caso dell’informazione anche di libertà rispetto al committente politico che da sempre caratterizza l’editoria italiana.
Poi c’è quel fascino non velleitario ma cristallizzato in tantissime forme di narrazione individuale del potercela fare. È come se lo slogan vincente del primo Obama, Yes we can, fosse, al netto del momento storico, il vero miraggio universale. L’idea che chiunque, a prescindere dalle sue origini, dal conto in banca e dalle relazioni dei suoi genitori, a prescindere dalla pelle, dalla religione, dalle inclinazioni sessuali, potesse realizzare i propri sogni ha fatto dell’America non solo la terra del possibile ma anche quella della meritocrazia individuale rispetto alle varie forme di feudalesimo prima e di steccati borghesi poi della cultura europea.
La terra di frontiera dove ognuno può costruire il proprio destino. Ma non è stato sempre così. I vari Stati dell’Unione, sparpagliati su una geografia immensa, infatti sono molto diversi fra di loro per tradizioni, leggi e visioni, ma l’immagine rimaneva potente. Direi che le cose sono cambiate subito, all’inizio del XXI secolo, con l’attentato alle Torri gemelle di New York, l’11 settembre 2001. L’attentato più incredibile e spettacolare (in senso tragico) della storia del terrorismo, la scoperta che la libertà e la sicurezza appartengono solo in parte allo stesso campo semantico politico.
Poi la lunga invasione dell’Afghanistan, paese “canaglia”, matrice e nascondiglio della ferita subita. Una lunga occupazione finita con l’indecorosa ritirata da Kabul e la sconfitta planetaria dell’America come maggiore esportatrice nel mondo del modello della democrazia, quella stessa democrazia messa in crisi internamente da Trump fino allo shock di Capitol Hill.
E poi il Covid, che ha devastato le persone e l’economia ma soprattutto ha reso visibile al mondo il fallimento di una sanità che non viene considerata un bene costituzionale. Senza questo contesto di progressivo, anche se relativo, indebolimento, Putin non avrebbe forse mai invaso l’Ucraina, con tutto quello che una guerra nel cuore dell’Europa voleva dire. Crisi economica, soprattutto crisi energetica epocale nel continente dove la Nato ha le sue basi di controllo del gigante russo.
Ora, e mentre scriviamo, Biden non può fare a meno di armare Zelensky e nello stesso tempo deve cercare una via, ancora impervia, per una pace che tutto il mondo chiede. La chiede anche la Cina, la principale sostenitrice della globalizzazione degli affari e la principale nemica dell’America per il dominio economico, specie per quanto riguarda la tecnologia della componentistica elettronica.
Certo l’irrigidirsi della cosiddetta geopolitica dell’est potrebbe di nuovo spingere le nuove generazioni a guardare agli States come alla nuova frontiera, magari meno nobile sul piano ideale ma molto concreta per quanto riguarda le possibilità della ricerca e del lavoro. Per i millennials non c’è più la méta di un sogno, ma i sogni possono avere tante mete quanto quelle dove è possibile realizzarli. E il grande ovest torna ad essere una meta appetibile.
Soprattutto, come dice il mio osservatore in California, per gli americani fare business è come per noi mangiare la pizza. Solo che in un garage, in un laboratorio, in una casa, fanno subito rete. Noi siamo invece inguaribili individualisti, sogniamo in proprio. Ma non è mai troppo tardi per viaggiare, non è mai troppo tardi per imparare!