La storia europea che abbiamo dimenticato: intervista a Fred Kuwornu

Fred Kudjo Kuwornu è un regista e attivista afrodiscendente nato a Bologna e residente da anni a New York. Alla Biennale d’Arte di Venezia del 2024 è stato uno dei pochissimi italiani selezionati per il Padiglione Centrale con il suo film We Were Here, un documentario che ricostruisce la presenza degli africani e afrodiscendenti nell’Europa rinascimentale, riportando alla luce figure di artisti, nobili, santi e intellettuali dimenticati. Dopo oltre 45 proiezioni negli Stati Uniti, il film è ora in corsa per gli Oscar 2026 nella categoria Miglior Documentario. In questa conversazione, Kuwornu racconta la genesi del progetto, le reazioni del pubblico, e una riflessione più ampia su come la storia europea abbia rimosso le proprie radici afrodiscendenti.

Ciao Fred, e grazie per aver accettato l’intervista. Nel nostro primo scambio, abbiamo parlato soprattutto della tua esperienza alla Biennale di Venezia, dove sei stato uno tra i pochi italiani – e newyorkesi – selezionati per il Padiglione Centrale. Com’è nata questa opportunità e cosa ha rappresentato per te?

Vero, ero uno dei pochissimi italiani – e anche tra i newyorkesi d’adozione – presenti nel Padiglione Centrale. A quell’edizione eravamo solo cinque italiani. È stato significativo perché sono un documentarista, e la Biennale d’Arte non è certo lo spazio tipico per un documentario lineare. Di solito ci sono videoinstallazioni o lavori di videoarte lunghi cinque minuti. Io ho portato un film da 45 minuti con una screening room dedicata. E mi ha stupito vedere molte persone rimanere anche mezz’ora: di solito, quando visito una Biennale, resto tre minuti per opera.

Il progetto è arrivato molto in fretta: dovevo finire il film e non ho avuto tempo per uffici stampa o comunicazione, un peccato perché c’erano tantissimi giornalisti che avrebbero potuto parlarne. Così abbiamo iniziato il tour in Nord America: la prima proiezione è stata al Minneapolis Institute of Art, poi molte università negli Stati Uniti. Da dieci anni faccio 50-60 date l’anno, perché qui le università hanno strutture, dipartimenti e risorse per promuovere il cinema. Spesso diventano anche spazi culturali aperti alla comunità.

Poi ho portato il film anche in Europa: Madrid, Germania, Zurigo. A settembre ho ripreso il tour negli Stati Uniti e abbiamo avuto anche un’uscita al cinema a New York per una settimana. Dopo questo abbiamo iscritto il film nella categoria Documentario agli Oscar. È un processo lungo, pieno di materiali e verifiche, ma dieci giorni fa abbiamo ricevuto la conferma dell’ammissione. Ora aspettiamo la prima selezione a inizio dicembre, quando i membri dell’Academy sceglieranno i primi 15 titoli.

E allora direi di iniziare a parlare del film, We Were Here. La cosa che colpisce è la prospettiva: invece di partire dalla storia della tratta atlantica degli schiavi o della conseguente diaspora africana, racconti una presenza afrodiscendente ben integrata nella società rinascimentale. Perché questa scelta narrativa?

Nasce dalla mia esperienza personale: sono italiano di origine africana, cresciuto in Italia, e a scuola gli unici momenti in cui comparivano persone nere erano la tratta degli schiavi e Martin Luther King. Due momenti lontanissimi tra loro. Quindi la presenza nera era sempre associata alla schiavitù o ai diritti civili.

Vivendo negli Stati Uniti e lavorando nelle università mi sono immerso nella letteratura afrodiscendente, anche europea. Ci sono tantissime pubblicazioni sulla presenza africana in Europa, non solo nel Rinascimento ma anche nell’antica Roma, in Grecia, nel Medioevo. A un certo punto ho capito che era possibile fare un documentario sul Rinascimento proprio perché esiste una base visuale molto solida: quadri famosi e meno famosi che mostrano questa presenza. Non è un’interpretazione contemporanea: c’era davvero. Il punto è che leggiamo il passato con i pregiudizi del presente. Io stesso sono passato davanti a palazzi pieni di rappresentazioni africane, soprattutto a Firenze, senza farmi domande. Perché sono lì? Cosa significano? Nessuno ci educa a interrogare quello che vediamo.

Una riflessione interessante che emerge dal film è che l’afrodiscendenza europea è praticamente assente nel dibattito mainstream. La parola “afroitaliano”, per esempio, è entrata nel linguaggio comune solo da pochissimo. Il tuo film colma un vuoto narrativo?

Credo di sì, e forse è il primo a farlo in una dimensione europea. Ci sono progetti bellissimi in Inghilterra, Olanda, Svizzera, e qualcosa anche in Italia, ma quasi sempre limitati al contesto nazionale. Io volevo una prospettiva continentale, anche per evitare il gioco del “noi non centriamo” che ogni paese fa sugli altri. In Italia si dice: “Non abbiamo avuto colonie come i francesi”. In realtà ci sono responsabilità e storie condivise su scala europea.

Secondo te l’assenza della storia afrodiscendente nei libri di scuola è una semplice mancanza editoriale o un sintomo di un problema più profondo?

È un problema strutturale. Non riguarda solo le minoranze: in generale la storia che studiamo è fatta di date e nomi, non di persone. Per quanto riguarda le storie afrodiscendenti, hanno subito un’ulteriore cancellazione tra fine Ottocento e inizio Novecento, durante il colonialismo europeo.

Un esempio: tutti sappiamo della dominazione araba in Spagna, durata quasi 700 anni. Ma a scuola ci si dedica pochissimo. Se davvero spiegassero quel periodo, molti spagnoli capirebbero che la loro storia – e forse i loro geni – sono anche arabi o africani. Lo stesso nel Sud Italia. Se si sapesse davvero, nascerebbe più interesse, più studi, più consapevolezza. Ma la storia viene raccontata in modo superficiale, e questo limita tutto.

In parte siamo vittime dei canoni culturali imposti negli ultimi secoli, spesso più nordici che mediterranei.

Esatto. Dal Settecento il Nord Europa ha impostato i canoni culturali per separare il Sud dall’Africa e dal Medio Oriente. L’Inghilterra, in particolare, ha giocato un ruolo enorme, anche nel processo di unificazione italiana – oggi ci sono documenti che lo dimostrano. Era un modo per ridurre l’influenza mediterranea sul canale di Suez e sull’intero bacino.

Ovviamente, si fa fatica a non trattare l’argomento senza sentire la presenza di quella sorta di clava politica, o spada di Damocle, dell’etichetta “woke”. Soprattutto quando ci si trova ad affrontare il particolare nel generale, come la presenza afrodiscendente in Europa. Ti capita di pensare che, una volta riconosciuta pubblicamente questa storia, qualcuno la definirà comunque “woke”?

Succederà, è inevitabile. Prima si nega la storia, poi quando i dati diventano incontrovertibili si dice che sono rappresentazioni “woke”. Ma la cosa curiosa è che queste polemiche non scoppiano quando, per esempio, Cleopatra viene interpretata da un’attrice bianca, o quando si fa un film su Gesù e il protagonista è un attore nordico. Nessuno dice nulla. Io stesso non sono d’accordo con alcune forzature degli ultimi anni, ma spesso vengono gonfiate per saturare il pubblico, così poi non crede più nemmeno alle verità storiche.

C’è un personaggio del film che, secondo te, potrebbe riscrivere l’immaginario collettivo europeo sulla presenza Black?

Sì, ed è quello su cui vorrei impostare il prossimo progetto: San Benedetto il Moro, santo patrono della città di Palermo. Lui è un frate, nato da genitori schiavi – ma lui nacque libero, in provincia di Messina. Divenne frate francescano in un convento di Palermo, ma era già inseguito dalla gente che ne chiedeva i miracoli. È stato beatificato quasi subito, ma santificato quasi due secoli dopo la morte: nonostante questo, già dopo la beatificazione, venne iniziato ad essere venerato da tutti i cattolici neri europei, soprattutto in Spagna e Portogallo. Quel culto esplose infine in Sudamerica, intorno al 1600, soprattutto tra gli schiavi afrocolombiani e afrovenezuelani. Lavorare un documentario su di lui sarebbe una bella sfida, toccherebbe più di sette Paesi e ne darebbe un respiro molto più globale, come ho voluto fare con We Were Here.

Se confrontiamo l’integrazione razziale negli Stati Uniti con quella europea, secondo te l’Europa è più indietro?

È complicato. Dal punto di vista legislativo e delle opportunità, sì: l’Italia e l’Europa non sono società meritocratiche e spesso proteggono una parte della popolazione, creando barriere burocratiche enormi. Non vedo una soluzione semplice.

Sul piano delle relazioni quotidiane, però, direi l’opposto. L’inconscio mediterraneo ha sempre avuto a che fare con la diversità, quindi nei rapporti umani c’è più empatia. Lo vedi nelle coppie miste: in Italia e in Spagna ce ne sono molte più che negli Stati Uniti. In America esiste ancora una forte separazione tra nero e bianco: quartieri diversi, chiese diverse, abitudini diverse. La domenica, negli USA, la chiesa è uno dei luoghi più segregati che ci siano: se un nero non entra nella chiesa del proprio quartiere, ma in una ad appannaggio della comunità bianca, spesso riceve delle occhiatacce. In Italia questo non succede.

Ho la sensazione che in Italia molte persone diano per scontato che la comunità nera sia soprattutto musulmana, mentre l’idea di una persona nera cattolica sembra quasi “fuori categoria”. Ti torna?

Non ci avevo riflettuto, ma può essere. In Italia alcune comunità numerose, come i senegalesi, sono musulmane, ma ci sono tantissimi afrodiscendenti cristiani o cattolici. È una percezione distorta. E questo si collega al fatto che, su alcuni aspetti, l’Italia è più avanti degli USA e su altri più indietro: è come se razionalmente si volesse prendere distanza, ma nell’inconscio restasse una familiarità antica.

In Italia esiste una forma di solidarietà “mediterranea” verso l’altro, a volte anche legata alla storia coloniale. Quanto pesa, secondo te, questo retaggio?

Secondo me pesa molto, ma non solo per il colonialismo: pesa il fatto che l’Italia è sempre stata uno spazio di mescolanza mediterranea. L’identità europea “nordica” è stata imposta dal Settecento in poi, ma non ha mai attecchito davvero. Anche oggi, quando un italiano vive all’estero in luoghi molto “nordici”, spesso si sente più vicino a persone mediorientali o africane che non ai nord-europei. È culturale, inconscio.

Esiste, secondo te, un “checkpoint culturale” che ci farà dire: ok, da qui in avanti la narrazione sulla presenza afrodiscendente in Europa sta finalmente cambiando?

Sì: quando la scuola inizierà a usare i nomi originali delle persone, dei luoghi, delle culture. I nomi sono fondamentali per rompere gli stereotipi. E quando si racconteranno le origini reali delle figure storiche – come Gesù, che nei dipinti europei diventa biondo e nordico – si cambierà il modo in cui i ragazzi percepiscono il mondo. L’alterità diventa meno spaventosa se conosci davvero da dove arrivano le cose.

Nelle decine di proiezioni del film negli Stati Uniti, hai notato differenze nelle reazioni tra pubblico americano ed europeo?

In Europa non ho avuto modo di mostrare molto in film come in America, ma una differenza c’è. Gli americani lo accolgono con entusiasmo, forse perché hanno una grande passione per l’arte rinascimentale, che per loro è qualcosa di esotico. Rimangono affascinati dal legame tra pittura e storia. In Europa, invece, spesso manca proprio la conoscenza della storia reale della schiavitù: molti pensano che inizi tutto con la tratta atlantica verso le Americhe, senza sapere che Spagna e Portogallo praticavano già forme di schiavitù domestica 60 anni prima. E che in Europa, per secoli, anche gli europei venivano ridotti in schiavitù.

Tra l’altro, nella tratta degli schiavi un ruolo fondamentale lo giocavano le stesse élite africane dell’epoca, che vendevano agli europei i prigionieri delle guerre africane. Non lo dico per giustificare nessuno, ma per onestà intellettuale: riconoscere questo aiuterebbe anche a smontare l’idea che gli africani siano sempre stati solo vittime. E avrebbe un impatto culturale enorme. Oggi leggo di presidenti di stati africani che chiedono riparazioni economiche agli Stati Uniti per la tratta degli schiavi. Ma queste riparazioni economiche, così come sono discusse oggi, non funzionano: chi dovrebbe pagarle? Negli Stati Uniti, molti cittadini non hanno alcun legame con la storia della schiavitù. Penso ad un italoamericano che viene a sapere che i soldi delle proprie tasse sono andati in Africa per queste riparazioni: i propri discendenti neanche vivevano nell’America schiavista. E poi, anche se i soldi arrivassero ai paesi africani, non risolverebbero i problemi strutturali. Sarebbero assorbiti dai governi senza benefici reali.

C’è da dire, poi, che la ricchezza di molti stati europei è nata proprio grazie allo sfruttamento della schiavitù.

Esatto. Paesi come Olanda, Spagna e Portogallo hanno accumulato ricchezze enormi grazie a quel sistema. È la base su cui si sono costruiti capitalismo, infrastrutture, potere economico. Se l’Italia avesse fatto lo stesso – paradosso scomodo ma storico – oggi sarebbe un Paese molto diverso. Invece nel Settecento e Ottocento era una terra “da conquistare”, non un impero commerciale.

Chiudiamo con Alessandro de’ Medici e Benedetto il Moro, due figure centrali nel film. Perché ti senti più vicino a Benedetto?

Perché Benedetto rappresenta un percorso meritocratico, umano. Alessandro de’ Medici è diventato duca per nascita e per interessi politici: era sostenuto dagli Asburgo, probabilmente messo lì per convenienza e poi eliminato per motivi altrettanto politici. Benedetto, invece, incarna una storia di spiritualità, riconoscimento e riscatto personale. È una figura che parla molto anche al presente.

Immagine di Francesco Caroli

Francesco Caroli

Francesco Caroli, nato a Taranto, ha iniziato a scrivere di musica e cultura per blog e testate online nel 2017. È autore per le riviste cartacee musicali L'Olifante e SMMAG! e caporedattore per IlNewyorkese. Nel 2023 ha pubblicato il saggio "Il mutamento delle subculture, dai teddy boy alla scena trap" per la casa editrice milanese Meltemi.

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