Scuola e algoritmi: educare alla cittadinanza nei feed personalizzati

Senza formazione continua, dialogo e supporto sistemico, l’alfabetizzazione digitale rischia di rimanere un esercizio formale, incapace di sviluppare resilienza contro contenuti polarizzanti o manipolativi. L’intelligenza artificiale non è più un semplice strumento: plasma le nostre percezioni, le interazioni sociali e l’accesso al sapere. In Italia, le scuole stanno ancora imparando a misurarsi con questo nuovo ecosistema. La sfida non è tecnica, ma educativa: creare spazi in cui gli studenti possano parlare, dubitare, partecipare e attribuire significato

Nella società iperconnessa, i giovani non formano più le loro opinioni solo tra i banchi di scuola o a casa. TikTok, YouTube e ChatGPT diventano mediatori principali della loro esperienza del mondo, spesso senza filtri o supervisione adulta. Dietro ogni video consigliato o risposta automatica si nasconde un algoritmo che decide cosa vedere, cosa pensare e persino come sentirsi. In questo scenario, le scuole italiane si trovano a un bivio: subire passivamente queste dinamiche digitali o diventare spazi di resistenza critica, dove i ragazzi possano comprendere, discutere e partecipare al dialogo democratico.

Ho condotto una ricerca basata su 13 interviste approfondite. Ho parlato con insegnanti di scuola primaria e secondaria e dirigenti scolastici coinvolti nella progettazione dei curricula e nelle politiche digitali delle loro istituzioni. L’obiettivo era capire come gli educatori italiani percepiscono e reagiscono all’influenza crescente dei social media e dell’intelligenza artificiale nella vita dei giovani.

Storicamente, l’istruzione ha accompagnato lo sviluppo morale e cognitivo dei ragazzi, ma oggi le piattaforme digitali competono direttamente con la scuola e la famiglia. I motori di raccomandazione, progettati per aumentare il coinvolgimento, rischiano di creare “echo chambers” che rafforzano idee preesistenti e alimentano polarizzazione o ideologie estreme.

Le camere dell’eco non sono un fenomeno astratto: si manifestano quotidianamente nei feed personalizzati, dove gli studenti ricevono contenuti che rafforzano le loro convinzioni senza offrire alternative. In questo contesto, l’educazione può intervenire con strategie mirate: attività di confronto tra fonti diverse, produzione di contenuti mediatici riflessivi e laboratori di discussione possono sviluppare la capacità di analizzare e argomentare informazioni contrastanti. Alcuni esempi concreti includono la creazione di “giornali di classe digitali”, dove i ragazzi commentano articoli con prospettive diverse, oppure la realizzazione di video o podcast che raccontano storie alternative a narrazioni estremiste. In questo modo, la scuola diventa uno spazio in cui il pensiero  e la sensibilità si esercitano nella pratica, formando uomini e donne capaci di riconoscere manipolazioni algoritmiche e di partecipare attivamente al dibattito pubblico.

In questo contesto, due approcci educativi emergono con forza. La Media Education, diffusa in Europa, fornisce strumenti critici per decodificare i messaggi mediatici, ponendo domande come: “Come riconosco la disinformazione?”. L’Educomunicazione, nata in America Latina, va oltre: stimola i giovani a diventare comunicatori attivi, capaci di co-creare significati, e a costruire comunità.

Dalle interviste è emerso però un quadro frammentato. La maggior parte delle scuole non ha strategie sistemiche per affrontare la cultura digitale in maniera precisa. Le pratiche si basano sull’iniziativa individuale dell’insegnante, senza strumenti o linee guida istituzionali.

Non ci sono spazi per l’analisi condivisa di contenuti online né per riflettere su polarizzazione e radicalizzazione. La scuola rischia così di diventare spettatore passivo di dinamiche che condizionano profondamente le menti degli studenti.

Eppure, anche in questa apparente difficoltà, emergono segnali incoraggianti. Alcuni docenti cercano un coinvolgimento più attivo, sperimentano metodi dialogici e introducono momenti di riflessione critica nelle loro classi. Queste esperienze individuali trovano un parallelo a livello più ampio in progetti europei come MEDIADELCOM, che creano reti transnazionali per sviluppare pratiche educomunicative in grado di contrastare la disinformazione e promuovere la cittadinanza digitale. In questo modo, l’impegno dei singoli insegnanti può inserirsi in strategie più strutturate, aprendosi a collaborazioni, condivisione di buone pratiche e sostegno reciproco tra scuole di diversi Paesi.

Il nodo centrale, come sottolineano le mie analisi, non è solo tecnologico, ma culturale. Senza formazione continua, dialogo e supporto sistemico, l’alfabetizzazione digitale rischia di rimanere un esercizio formale, incapace di sviluppare resilienza contro contenuti polarizzanti o manipolativi.

L’intelligenza artificiale non è più un semplice strumento: plasma le nostre percezioni, le interazioni sociali e l’accesso al sapere. In Italia, le scuole stanno ancora imparando a misurarsi con questo nuovo ecosistema. La sfida non è tecnica, ma educativa: creare spazi in cui gli studenti possano parlare, dubitare, partecipare e attribuire significato.

In un mondo dominato dai feed personalizzati, la scuola può diventare un’ancora di ragione, empatia e interazione. L’impegno già mostrato da alcuni insegnanti può diventare la base per favorire una partecipazione civica più consapevole, resiliente e attiva.

Immagine di Francesco Pira

Francesco Pira

Professore Associato di sociologia dei processi culturali e comunicativi, insegna Comunicazione Strategica, Teorie e Tecniche del Giornalismo Digitale e Giornalismo Sportivo, Social Media e Comunicazione d’Impresa, presso i corsi di laurea magistrale e triennale del Dipartimento di Civiltà Antiche e Moderne dell’Università degli Studi di Messina. A marzo 2024 è stato nominato Presidente della branch Comunicazione Media e Informazione dii Confassociazioni, di cui era stato Vice Presidente e dal giugno 2020 è Presidente anche dell’Osservatorio Nazionale sulle Fake News. Il quotidiano italiano Avvenire l’ha definito uno dei maggiori analisti italiani del fenomeno Fake News.

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