Giuseppe Di Cicco è uno di quei creator partiti dal basso che a New York ha un solo obiettivo: resistere. Qui ha iniziato a raccontare online quartieri, abitudini e difficoltà, costruendo una community che ha seguito i suoi video ed il suo tentativo di cambiare vita. Oggi la sua storia è diventata parte del suo lavoro: un percorso fatto di corse, risparmi, rientri obbligati ed ostinazione.
Partiamo dall’inizio: come sei arrivato a New York?
Cercavo un’opportunità. In Italia facevo il rider da cinque anni, ma volevo cambiare vita. La mia passione erano i contenuti, così sono venuto qui con l’idea di restare due o tre mesi e portare video su YouTube. La prima volta ho intervistato tanti italiani, ho mostrato Harlem, il Bronx, e in parallelo pubblicavo video verticali su Instagram e TikTok con consigli su dove mangiare, passeggiare, vedere il tramonto. Questa cosa è piaciuta molto e ha creato un pubblico.
Come hai finanziato il primo viaggio?
In Italia ho risparmiato quel che potevo facendo il rider. Ho messo da parte i soldi e li ho investiti in quei primi tre mesi qui. Poi sono rientrato in Italia, ma avevo capito che volevo tornare: sono andato a lavorare a Malta per tre mesi, ho risparmiato di nuovo e sono ripartito.
Nel secondo viaggio hai fatto anche un tour negli Stati Uniti, giusto?
Sì. Dopo dieci giorni in Italia sono ripartito. Ho fatto cinque giorni a New York e poi un viaggio di venti giorni: Chicago, Texas, New Mexico, tutta l’America centrale. Quando sono rientrato ho deciso che avrei vissuto per un periodo a New York.
E qui è arrivata la collaborazione con Outpost.
Esatto. Un’azienda di New York, Outpost, tramite il manager, anche lui napoletano, mi permette di vivere nelle loro case in cambio di video. Non devo pagare l’alloggio e questo mi fa vivere con meno ansia.
La tua community sembra molto affezionata alla tua storia personale.
Sì, perché ho iniziato raccontando che volevo smettere di fare il rider, andare in America e cambiare vita. Non è semplice farsi strada qui, soprattutto per i documenti. Il fatto di stringere i denti, risparmiare, far vedere anche le difficoltà quotidiane ha creato una sorta di tifo attorno a me. Non solo per New York, ma per il percorso.
Hai rifiutato anche donazioni.
Sempre. Pensavo che ci fossero cause più importanti. Ho voluto farcela con le mie forze, e questa cosa è stata apprezzata.
Perché proprio New York?
La prima volta ci sono stato tre giorni e ho capito subito che questa città corre al mio stesso ritmo. A Napoli mi sentivo “troppo veloce” rispetto a tutto. Qui invece no: qui mi sento nel posto giusto.

Il tuo sogno ha due fasi: la prima è ottenere i documenti. La seconda quale sarebbe?
Creare un ponte tra Italia e New York. Tante persone mi scrivono per vivere una vacanza meno turistica e più autentica. Sto costruendo collaborazioni con agenzie italiane: ad aprile porteremo un gruppo qui con un itinerario diverso, tipo Central Park in bici, Harlem in bici, partita degli Yankees, rooftop tutti insieme. Non un viaggio organizzato, ma una comitiva di amici. E voglio fare anche il contrario: portare americani in Italia.
Qual è stato il momento più difficile in questo percorso?
Quando sono rientrato in Italia dopo i primi tre mesi e ho dovuto ripiegare su Malta. Lì sono arrivate tante critiche, e per un attimo ho pensato che New York fosse stata solo un’esperienza passeggera. Poi mi sono rimesso a lavorare, giorno e notte, per riprovarci. E ovviamente manca tantissimo la famiglia: torno a casa da solo, qui non esco quasi mai, faccio solo video, dormo poco. È la parte più dura.
Secondo te, chi è più grande fa fatica a capire i social. Dove sbagliano aziende e persone?
Spesso non conoscono il mezzo e quindi non ne capiscono il potenziale. Per me il vero segreto è la costanza. Non la motivazione, perché quella finisce. Io da un anno pubblico sei o sette video al giorno. Ora un po’ meno perché ho 150-200 video pronti da usare dall’Italia. Ma la chiave è fare una cosa e farla bene.
Non c’è quindi una regola fissa su quanti contenuti pubblicare?
Secondo me no. Conta la costanza e come racconti le cose: lo storytelling è tutto.
Tre posti poco conosciuti di New York che ami particolarmente?
Il primo è Weehawken, nel New Jersey, che ha una vista pazzesca su Manhattan. Poi Dumbo, nella parte dei campi da calcio di fronte allo skyline. E Greenpoint: mi ha fatto innamorare. Se parliamo di grattacieli, per me Top of the Rock ed Empire State Building restano imbattibili.
Dove ti vedi tra cinque anni?
Questa esperienza mi ha fatto capire che tutto è possibile. Tra cinque anni mi vedo come una figura di riferimento per gli italiani a New York. Con umiltà, ma con l’ambizione di essere parte di questa città.




