Marc Urselli: dalla gavetta ai Grammy, tra New York e la sfida dell’AI

In oltre venticinque anni di carriera a New York, Marc Urselli ha costruito un percorso che lo ha portato dai turni infiniti da stagista all’EastSide Sound a diventare uno dei sound engineer e produttori più rispettati della scena internazionale. Tre Grammy Awards, collaborazioni con nomi internazionali tra i quali Lou Reed, U2, e Nick Cave, e oggi alla guida di due studi — lo storico EastSide Sound e il nuovissimo Audio Confidential, a due passi dal Madison Square Garden. In questa intervista, Urselli ripercorre i sacrifici degli inizi, il suo legame con la città, l’impatto del digitale sulla musica e le sfide che l’intelligenza artificiale pone al futuro della produzione musicale.

Sei cresciuto in Italia, hai aperto il tuo primo studio nel seminterrato di casa da giovanissimo, e poi nel 1999 ti sei trasferito a New York per trovare il tuo posto nel mondo della produzione musicale. Quali sono stati i momenti salienti di questa transizione, e quali ricordi affiorano di quel primo periodo da intern all’EastSide Sound?

Ho tantissimi ricordi di quel periodo, belli e brutti… Vedere arrivare artisti importanti e famosi quando hai 20 anni diventa una motivazione e un’ispirazione fortissima. Gli artisti che passavano per EastSide Sound erano persone che non avrei mai sognato di veder lavorare da vicino, e quindi l’opportunità di essere in loro presenza era unica. Ricordo che una volta ero in studio, un produttore stava lavorando su un disco quando gli arrivò una chiamata: era Laurie Anderson che gli chiedeva di lavorare con lei. Io pensai: “Chissà come ci si sente a ricevere una telefonata così”… quasi 10 anni dopo è successo anche a me, e ho ricevuto la stessa chiamata.

Ma ovviamente il percorso è stato lungo e arduo. A quei tempi dormivo pochissimo e, per farmi valere e notare in studio, facevo turni anche di 18 ore. Spesso non c’era il tempo di tornare a casa per dormire e farmi una doccia, quindi restavo sul divano dello studio: si finiva alle 2 o 3 di notte e il giorno dopo si ricominciava alle 8. Da casa mia allo studio ci voleva più di un’ora di mezzi pubblici. All’epoca vivevo in uno scantinato nel New Jersey che si allagava ogni volta che pioveva, quindi dormivo su un materasso ad aria gonfiabile che galleggiava quando l’acqua entrava nello scantinato…

Non venivo pagato ed ero lì solo per imparare. E visto che non avevo stipendio, vivevo dei risparmi e dei soldi che guadagnavo in Italia facendo un po’ di web design e siti internet (era l’inizio dell’era di Internet, quando tutti volevano farsi un sito e io ero un programmatore autodidatta). Vivevo controllando ogni spesa per far quadrare i conti e mangiavo malissimo. Non era affatto una vita salutare, ma ho fatto tutti quei sacrifici perché ero determinato a rimanere e imparare il mestiere, e soprattutto deciso a non chiedere soldi a casa per non pesare sulle spalle dei miei genitori. Sono fiero di esserci riuscito.

Da quando hai iniziato con il 4 track su cassetta in Italia, fino all’uso di Pro Tools e mixer recallabili oggi, come descriveresti l’evoluzione tecnica degli ultimi vent’anni? In che modo il digitale ha cambiato il tuo approccio — sia in studio che dal vivo?

Il digitale ha cambiato tutto. Per certi versi in meglio, per altri in peggio.
Dal vivo, per esempio, è bello portarsi dietro un mixer digitale che ha tutti gli effetti, i compressori ecc., senza dover avere decine di rack analogici per fare la stessa cosa: tutto è diventato più compatto ed efficiente. Anche in studio è così, ma lì l’evoluzione ha creato anche tanta pigrizia.

Senza entrare troppo nelle differenze di qualità fra analogico e digitale, l’avvento del digitale ha creato mille possibilità in più che prima non esistevano, ma ha anche rovinato un po’ l’industria musicale perché ha impigrito i musicisti. Oggi non hanno più la stessa voglia e determinazione di investire il tempo che prima si dedicava alla propria arte. L’intelligenza artificiale darà l’ultimo colpo di grazia a questa situazione, e rimarranno in pochi a fare ancora musica vera.

Oggi guidi l’EastSide Sound, uno degli studi storici di New York, vivendo tra la Grande Mela e Londra. Come descriveresti il tuo rapporto con New York e in che modo questa città ha influenzato il tuo lavoro?

In realtà guido due studi: sono il chief engineer (capo fonico) di EastSide Sound, il più vecchio studio di registrazione di New York, ma sono anche il proprietario del più nuovo studio della città: Audio Confidential, il mio studio, che ha aperto a metà luglio, a Chelsea. Dopo più di 25 anni ho chiuso il cerchio e ho aperto nuovamente un mio studio, proprio come negli anni ’90 in Italia.

Il mio rapporto con New York è di puro amore ed energia. New York è la città più figa al mondo: mi dà ispirazione, energia, invenzione, carica e idee in continuazione. La gente di New York è fantastica e super intelligente, gli artisti sono bravissimi, di un livello superiore alla media mondiale, e le persone più in gamba del pianeta prima o poi vengono a NYC a confrontarsi con il resto del mondo. È la capitale culturale del mondo, e chi non lo sa o non lo capisce, semplicemente non ci è mai stato o non ci ha mai passato abbastanza tempo. Non basta venire da turisti: una volta che ci vivi ti si apre un nuovo mondo!

Cosa ti ha spinto, proprio ora, ad aprire un nuovo studio a New York?

Mi piace produrre dischi e far parte del processo creativo della genesi di un album. Tuttavia, per lavorare come produttore a un disco è spesso necessario avere un tuo spazio, dove non paghi a ore e non sei sempre preoccupato per l’orologio. Questo è stato il motivo principale.

Ho creato e aperto Audio Confidential perché volevo un mio studio dove poter essere libero e indipendente. Ci sono anche altre ragioni: avevo un banco NEVE vintage che non veniva più usato e mi sembrava uno spreco tenerlo in storage inutilizzato. Infine, volevo dare l’opportunità ad artisti emergenti o con minori possibilità economiche di poter lavorare con me in una situazione più favorevole.

EastSide Sound è uno studio bellissimo, che amo, ma costa molto perché è uno dei più grandi e famosi a New York. Ora ho un’opzione più economica per chi non può permettersi EastSide Sound, mentre chi vuole più spazio, più iso booths e/o un pianoforte più grande può continuare a registrare con me lì.

Come vedi il futuro della produzione musicale professionale a New York nei prossimi 5-10 anni, e quale sarà il tuo ruolo in questo panorama?

Io continuerò a fare dischi fino a che non muoio. Questo è ovvio.
L’intelligenza artificiale però sta arrivando a pieno regime e distruggerà la scena musicale, e non solo: anche le nostre vite. Ci saranno sempre meno musicisti, sempre meno fonici. La gente che fa il mio lavoro diventerà come i pochi calzolai di Firenze ancora rimasti, che fanno scarpe di pelle a mano per pochi: la nostra clientela saranno coloro che apprezzano la qualità e che se la possono permettere.

Il resto del pubblico ascolterà pessima musica generata dall’AI per il profitto delle multinazionali come Spotify, che della musica non si interessano affatto (infatti non pagano quasi nulla ai musicisti, ma guadagnano miliardi e li reinvestono in armi). Ci stiamo distruggendo da soli, e la fine si avvicina mentre tutti ridono senza capire cosa stiamo facendo e i rischi che corriamo.

Io però non ho figli (per scelta) e vivo nel presente, quindi continuo a godermi la vita come meglio posso guardando la vita attraverso la lente della musica, e continuo a creare arte, perché — insieme all’amore e ai rapporti personali — è l’unica cosa vera che ci rimane e in cui credo.

Immagine di Francesco Caroli

Francesco Caroli

Francesco Caroli, nato a Taranto, ha iniziato a scrivere di musica e cultura per blog e testate online nel 2017. È autore per le riviste cartacee musicali L'Olifante e SMMAG! e caporedattore per IlNewyorkese. Nel 2023 ha pubblicato il saggio "Il mutamento delle subculture, dai teddy boy alla scena trap" per la casa editrice milanese Meltemi.

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