Mario Cardoni, Direttore Generale di Federmanager, è intervenuto ai microfoni de ilNewyorkese nel podcast Ritratti, condotto da Claudio Brachino. Nel corso dell’intervista ha raccontato come la rappresentanza dei dirigenti italiani stia evolvendo per affrontare le sfide di un mercato del lavoro sempre più complesso, tra digitalizzazione, transizione energetica e nuovi modelli di welfare.
Dopo anni alla guida operativa di Federmanager, quali considera i traguardi più significativi?
Abbiamo raggiunto risultati rilevanti, nonostante un contesto complesso come quello delle relazioni industriali e sindacali, che oggi fatica a mantenere partecipazione e attenzione. Ho cercato di contribuire affinché l’associazione restasse al passo con i tempi, affrontando e in alcuni casi anticipando i cambiamenti del mondo del lavoro, spingendo sulla leva della innovazione tecnologica e digitale che ha messo in contatto la sede centrale con le 55 sedi territoriali. Tra i risultati più importanti c’è sicuramente il ritorno alla centralità del contratto collettivo nazionale nella disciplina del lavoro dirigenziale. Lo abbiamo modernizzato, inserendo elementi di flessibilità – oggi fondamentali – e potenziando un sistema di welfare integrativo che rappresenta un’eccellenza riconosciuta.
Quali sono i bisogni dei dirigenti e come risponde Federmanager?
I dirigenti oggi hanno bisogno certamente di previdenza e sanità, temi sicuramente centrali per la nostra categoria, ma dobbiamo rispondere anche ad altre istanze. Il vero salto lo abbiamo fatto puntando sulle competenze: dieci anni fa abbiamo introdotto un sistema di certificazione professionale “Be Manager” che oggi ha raggiunto la soglia di 1000 certificati, perché siamo convinti che chi lavora debba sapere cosa chiede il mercato e come prepararsi. Viviamo una transizione continua: digitale, ecologica, energetica, e ora anche geopolitica. Un manager oggi deve saper guidare team in contesti instabili, dove i punti fermi sono sempre meno. La conoscenza e la consapevolezza delle proprie competenze diventano quindi strumenti strategici.
Negli ultimi anni l’attenzione al welfare aziendale è diventato un elemento strutturale. Qual è la vostra visione?
Per noi il welfare è parte integrante della retribuzione. Da sempre sosteniamo forme di previdenza integrativa, consapevoli che il sistema pubblico da solo non basta. Il 40% delle pensioni oggi è assistenziale, ovvero senza una copertura contributiva adeguata: questo è un segnale allarmante.
Chiediamo da tempo la separazione tra previdenza e assistenza, per evitare che chi ha versato regolarmente venga penalizzato. Nell’ultimo contratto abbiamo aumentato la quota a carico dell’impresa: non è solo un beneficio, ma un modo per garantire continuità di reddito e tutela della qualità della vita anche dopo il pensionamento. La stessa attenzione la dedichiamo alla sanità integrativa che rimane sempre al vertice dei bisogni degli associati.
80 anni di Federmanager: che evoluzione ha avuto l’associazione?
Siamo nati come rappresentanti dei “pari grado” degli imprenditori. Successivamente, negli anni ’70, con l’industria a partecipazione pubblica, sono emerse strutture organizzative con diversi livelli di managerialità. Oggi siamo dentro una nuova trasformazione: organizzazioni più orizzontali, team con maggiore autonomia economia della conoscenza. Il ruolo del manager non è più solo gestionale, ma sempre più specialistico: il valore sta nelle competenze e nella capacità di impattare sugli obiettivi aziendali. Dobbiamo uscire dai vecchi schemi contrattuali novecenteschi e costruire modelli più adatti alla complessità attuale. Dirigenti e quadri costituiscono il management delle imprese che dovrebbe essere rappresentato dalla stessa organizzazione.
Come cambierà, secondo lei, il rapporto tra manager e impresa?
Il futuro sarà definito da tre parole: innovazione, sostenibilità e competitività. Serve un nuovo slancio industriale: oggi l’industria pesa solo per il 17% del PIL, ma è il cuore del nostro modello economico. Abbiamo circa 20.000 imprese industriali ben strutturate, di cui 3.500 sono le cosiddette multinazionali tascabili italiane. La sfida è raddoppiare questo numero, creando nuove aziende solide e innovative. Per farlo, serve lavoro di qualità, guidato da manager competenti. Le imprese devono aprirsi alle filiere internazionali e crescere, anche se a volte, l’efficienza conta più della dimensione.
Digitalizzazione: a che punto siamo?
Siamo ancora indietro. Solo una parte ancora esigua delle imprese italiane ha avviato progetti legati alla intelligenza artificiale. Se ne parla più di quanto si applichi. Il nodo è la cultura del dato. Senza conoscenza e capacità di interpretare i dati, l’IA resta una potenzialità inespressa. In futuro nasceranno molte nuove professionalità legate proprio alla gestione dei dati. L’obiettivo non è sostituire l’intelligenza umana, ma liberarla dai compiti ripetitivi per valorizzare le attività strategiche.
Vi confrontate con associazioni omologhe a livello europeo?
Sì, aderiamo alla CIDA, la Confederazione italiana dei dirigenti d’azienda, che rappresenta il management pubblico e privato, e partecipiamo a organismi europei come CEC e CESE. L’Europa oggi è un luogo in cui si prendono decisioni fondamentali, e noi vogliamo portare la nostra voce anche in quei contesti. Abbiamo un sistema educativo valido: i nostri giovani, all’estero, rappresentano una eccellenza. Il problema è che spesso non tornano. Abbiamo anche ottimi manager, capaci di muoversi tra processi strutturati e creatività operativa. Non dobbiamo imitare altri modelli: il nostro ha un valore distintivo che va difeso e valorizzato.
Chiudiamo con un tema molto attuale: la questione fiscale.
La Banca d’Italia ha stimato un recupero di 25 miliardi di evasione fiscale, ma restano 75 miliardi ancora da recuperare. Il problema è che il carico fiscale grava sempre sugli stessi. Oggi solo circa il 6% della popolazione dichiara più di 55.000 euro lordi, ma versa il 42% dell’IRPEF complessiva. Questi numeri raccontano una verità scomoda: la struttura fiscale è sbilanciata. Serve una riforma equa, che premi chi contribuisce in modo corretto e non favorisca chi evade sistematicamente. Pochi contribuenti pagano troppo, molti sono al traino. È paradossale: chi meno paga più riceve e chi già paga di più viene tartassato.




