Due anni fa, per lo scudetto di Spalletti, si era scomodato il New York Times. La Grande Bellezza fu il titolo per quella squadra che vinse nel nome dell’estetica, nel nome del bel gioco che così poco appartiene alla scuola italiana – catenaccio, non prenderle, contropiede, cattiveria, cinismo, sacrificio. Quel Napoli onorava l’estetica di un regista napoletano da Oscar, anche se la protagonista era Roma, e Partenope (prima ancora dell’omonimo film) era un‘ossessione proustiana del tempo perduto, l’amore giovanile.
Ma non solo l’omaggio a Sorrentino, per quello scudetto si scomodò il Financial Times, calcio come business e crescita della reputation di una città. Branding, standing, turismo. Questo di Conte invece è uno scudetto senza il delirio dell’entusiasmo estetico, sia detto senza polemica, anche senza grandi campioni sul campo. Niente Olimpo ma direi lavoro marxista di squadra. Lukaku spalle alla porta, uno scozzese venuto quasi dal nulla (McTominay) che segna e stupisce e corre e difende anche, i gol di uno con la riga scolpita nel cristallo più che sulla testa, uno che doveva essere venduto a gennaio, uno che non era più nel progetto, Raspadori.
È lo scudetto frutto dei tanti errori, soprattutto dei più forti, quelli dell’Inter che si sono buttati via più e più volte, soprattutto al novantesimo della partita della penultima giornata con la Lazio. Ma la storia la scrivono i vincitori, ha detto Conte, e ha ragione. Inciso sulla Coppa c’è scritto Napoli, nell’almanacco e nell’antologia del calcio c’è scritto Napoli. La città, la città più innamorata del pallone che c’è al mondo, ha fatto festa ieri sera e ieri notte, dentro e fuori il Maradona, con lui che guardava dall’alto, commosso e forse ancora nostalgico, pur da lassù, delle cose che ha fatto su quel prato che ieri profumava di primavera.
È stata una festa bellissima e meritata. Le immagini dall’alto della folla immensa ma ordinata in Piazza del Plebiscito dicono di come questa gente sia entrata nella modernità abbattendo i pregiudizi storici e antropologici che l’hanno sempre condannata al grottesco in eccesso fino alla violenza. È lo scudetto di un grande condottiero, il coach volitivo di ferro, il vero e unico top player: Conte. Ma è anche la vittoria di un Presidente, difficile e bravissimo, De Laurentiis. Lunghi anni ad alto livello e due tricolori in tre stagioni. Vince ma con i conti in ordine, in un sistema che danza in una bolla pericolosa di debiti ed iperboli. Non ha bisogno dei soldi arabi o degli americani, i libri sono in ordine e adesso arrivano i dindini, tanti, della Champions.
De Luca dice che la Campania oggi è il vero nord e magari il Presidente gli può fare da testimonial. Tra Narcisi però ci si ama poco. L’abbraccio più breve in campo ieri, col mare del Golfo che era diventato di lacrime e sentimenti forti, è stato con Conte. Rimarrà, non rimarrà? Chissà… se vuole, Welcome – dice l’Aurelio freddo manageriale che si è formato ad Hollywood. E come simbolo della vittoria ha fatto fare uno scudetto gigante con la bandiera tricolore, la scritta Again e un gioco sul 4 (quarto scudetto) . L’inglese, la lingua globalizzata. Tu vo fa l’ americano, gli avrebbe detto Carosone. Ma un redivivo Humphrey Bogart gli avrebbe risposto: è il marketing, bellezza!