18 Settembre 1996, Napoli, giornate ancora calde e l’aria carica di promesse e timori tipica dei primi giorni di scuola. Varcavo per la prima volta il portone monumentale del Liceo Jacopo Sannazaro, nel cuore del Vomero, con il battito accelerato e lo zaino troppo grande e pesante sulle spalle. Un edificio imponente, con le sue aule spaziose e i corridoi che sembravano infiniti, teatro di generazioni di studenti passati prima di me, da Domenico Oriani a Gerardo Marotta e Fulvio Tessitore, passando per il famosissimo Luciano De Crescenzo, fino al filosofo e storico ex professore Nicola Nicolini e al chimico Pietro Omodeo.
Non conoscevo nessuno nella sezione in cui ero stato assegnato. Erano tutti volti nuovi, voci sconosciute, nomi che sarebbero diventati parte della mia vita senza che ne avessi ancora coscienza. Entrai in classe con il passo incerto di chi cerca di capire dove mettersi per non sentirsi fuori posto. E proprio mentre cercavo di guadagnare un angolo sicuro in fondo all’aula, la professoressa Annamaria Cannas mi fermò con uno sguardo deciso e un mezzo sorriso sornione: “Ehi tu, piccoletto, mettiti in prima fila”. Non un grande inizio ma non c’era modo di discutere. Mi sedetti e da quel giorno in poi quel posto sarebbe stato mio per tutti gli anni del liceo. Solo perché in quarto ginnasio ero basso, mi trovai per cinque anni in prima fila, testimone ravvicinato di ogni lezione, di ogni interrogazione, di ogni emozione che la scuola mi avrebbe regalato.
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Della scuola ricordiamo dettagli che il tempo non cancella: il suono metallico della campanella, le tecniche per non essere interrogati, le risate soffocate durante le lezioni più noiose, le fughe alla macchinetta degli snack prima dell’ora di matematica. Ricordiamo le amicizie nate senza un motivo preciso e diventate indissolubili, le prime delusioni, le prime vittorie, e le mille piccole abitudini che, senza che ce ne accorgessimo, hanno scolpito la nostra identità.
Dal punto di vista psicologico, gli anni della scuola sono così significativi perché rappresentano il periodo in cui il nostro cervello è nel pieno dello sviluppo delle connessioni neurali legate all’identità, alla socialità e ai valori. È il tempo in cui costruiamo le prime relazioni significative fuori dal contesto familiare, in cui sperimentiamo il confronto, il senso di appartenenza e il bisogno di riconoscimento.
Uno dei motivi per cui i ricordi della scuola restano impressi nella nostra memoria più di altri momenti della vita è legato al cosiddetto effetto “reminiscenza”, un fenomeno per cui tendiamo a ricordare con maggiore nitidezza gli eventi vissuti tra l’adolescenza e la prima giovinezza. Durante questi anni, ogni esperienza emotiva è amplificata: le prime amicizie profonde, le sfide accademiche, le delusioni e le vittorie personali lasciano un segno indelebile, costruendo la nostra percezione del mondo. La scuola è la prima comunità alla quale apparteniamo davvero, il primo microcosmo dove impariamo a vivere con gli altri, a risolvere i conflitti, a credere in qualcosa di più grande di noi. Ci insegna il valore del rispetto, della collaborazione e del merito, e lo fa attraverso esperienze condivise che restano nel cuore di ogni persona per sempre. Quando si dice che la scuola è il pilastro di una società, non si fa solo riferimento alla trasmissione del sapere. La scuola è il luogo in cui impariamo a essere cittadini, a immaginare il futuro e a capire chi vogliamo diventare. È il collante invisibile che tiene insieme una comunità, il primo spazio in cui si forma il senso di appartenenza a qualcosa di più grande di sé.
Non importa quanti anni passino, né quanto lontano si vada. La scuola resta dentro di noi. È nei gesti, nelle parole che usiamo, nei valori che portiamo avanti. È in quella voce interiore che ci ricorda chi eravamo prima ancora di sapere chi saremmo diventati. E forse è per questo che, quando torniamo davanti a quel cancello anni dopo, ci viene spontaneo fermarci un attimo. Perché, in fondo, una parte di noi è rimasta lì. A imparare, a crescere, a sognare.