Tra pace e piace c’è solo un fonema, un fonema che crea un rapporto di allitterazione musicale, quasi giocosa, ma nello stesso scava abissali differenze politiche e culturali. L’ho sentito e l’ho letto, una delle voci autorevoli della grande piazza di sabato scorso a Roma per l’Europa ha detto che non tutte le paci si possono accettare. Tradotto in soldoni, brutalmente, se la pace in Ucraina porta la firma di Trump noi, cioè la parte ideologica mainstream e radical di quella piazza, non la possiamo accettare.
Per continuare il gioco segnico dell’inizio di questo pezzo, lo slogan potrebbe essere: Niente pace se non ci piace. Vorrebbe dire che il narcisismo dei punti di vista supera l’analisi oggettiva della questione.
Mettiamo che questa settimana Trump e Putin si parlino, mettiamo che lo Zar accetti il piano intanto del cessate il fuoco, mettiamo che questo sia il primo passo concreto, dopo tre anni in cui la pace è stata affidata all’ossimoro occidentale degli aiuti con le armi, per la fine della guerra, sapete questo cosa significa sul piano oggettivo? Che dopo centinaia di migliaia di vite sacrificate da una parte e dall’altra nessuno morirà più.
Che la violenza, l’orrore, il sangue, la devastazione di ogni conflitto trovano la parola fine, vista l’importanza che stiamo dando alle parole.
Certo in ogni accordo diplomatico ci sono vincitori e vinti, sacrifici e frustrazioni, cose digeribili e altre meno. Però l’importante è che sul grande Macello Ucraina si metta il cartello chiuso. La questione vera è quella di raccontare ai cittadini e all’opinione pubblica il più possibile l’oggettività delle cose, pur nel rispetto democratico delle varie soggettività ideologiche. Il diritto di critica vale anche in situazioni complesse come queste, ma senza perdere di vista la realtà delle cose.
La real politik, sempre per viaggiare sugli accordi e disaccordi delle parole, non si fa nei salotti buoni, ma nelle stanze del potere, politico, militare ed economico. Sono decine gli analisti che ricordano da tempo che ogni pace possibile non può che partire dalla cristallizzazione dei rapporti di forza sul campo, ovvero sui 1.200 chilometri della frontiera del Donbass, quella lunga linea che ha inghiottito tante vite e dove l’Armata occidentale ha fallito, nel senso che non è riuscita a respingere i russi fuori dai confini del 2022. Se poi qualcuno un giorno vorrà proporre Donald Trump per il Nobel per la pace, sempre che le cose vadano per il verso giusto, beh non mi girerei dall’altra parte.