La marcia indietro di alcune tra le maggiori aziende americane sui temi della diversità e dell’inclusione appare sempre più evidente, soprattutto dopo il ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca. È quanto emerge da una recente analisi del New York Times che ha esaminato i rapporti finanziari annuali depositati presso la Securities and Exchange Commission (SEC), scoprendo come giganti del calibro di Walmart e Meta abbiano drasticamente ridimensionato i riferimenti espliciti a diversità, equità e inclusione (D.E.I.).
Secondo il quotidiano statunitense, nel 2025 il numero di società quotate nell’indice S&P 500 che menzionano espressamente la formula «diversità, equità e inclusione» è diminuito di circa il 60% rispetto al 2024. Nonostante ciò, il 78% delle aziende continua a discutere iniziative sulla diversità nei documenti ufficiali, sebbene con un linguaggio molto più prudente e spesso vago. Alcune aziende hanno eliminato la parola «equità», mentre altre preferiscono termini più generici come «appartenenza» (belonging).
Questo fenomeno aveva iniziato a delinearsi già prima del ritorno di Trump alla presidenza degli Stati Uniti, ma si è intensificato rapidamente dopo il suo reinsediamento. A gennaio, subito dopo l’insediamento, Trump aveva firmato un ordine esecutivo che chiedeva di indagare su eventuali iniziative di diversità ed equità ritenute «illegali» nel settore privato. Inoltre, aveva sostituito i vertici della Equal Employment Opportunity Commission, l’agenzia federale che controlla il rispetto delle norme anti-discriminazione.
La retromarcia delle aziende segue un clima politico diventato molto più ostile ai programmi di equità razziale e di genere. Negli ultimi anni, alcuni senatori repubblicani hanno definito la teoria critica della razza (critical race theory) una forma di «indottrinamento attivista». Anche la sentenza della Corte Suprema che nel 2023 ha abolito l’affirmative action nelle università ha contribuito ad alimentare una reazione contro ogni tipo di iniziativa che possa essere interpretata come discriminazione inversa.
Secondo Jon Solorzano, partner dello studio legale Vinson & Elkins, specializzato in consulenze aziendali, «parlare pubblicamente di D.E.I. ora è visto come un rischio molto maggiore rispetto al passato». Solorzano ha spiegato che molte aziende, pur continuando privatamente a sostenere le iniziative di diversità, stanno evitando di esplicitare i propri impegni nei documenti ufficiali, per non attirare eventuali indagini governative o controversie legali.
Per Musa Al-Gharbi, sociologo e professore presso la Stony Brook University, la vera questione è nella lettera «E» di equità: «Realizzare concretamente l’equità richiede spesso politiche che rischiano di alienare una parte degli stakeholder aziendali. È proprio questa la componente considerata più problematica».
Se è vero che numerose aziende mantengono comunque programmi interni sulla diversità, il rischio è che molte iniziative avviate negli ultimi anni perdano rapidamente vigore. La velocità con cui si è invertita la tendenza ha portato alcuni esperti come Ranjay Gulati, professore di Harvard, a interrogarsi sulla reale profondità delle dichiarazioni delle aziende: «Le imprese tendono spesso a seguire mode temporanee solo per motivi di immagine. Quando il clima cambia, il rischio è che vengano rapidamente abbandonate».