Lo sport contro la violenza: così si allenano linguaggio, relazioni e culture

Lo sport può essere un potente strumento per educare al rispetto e costruire nuove relazioni tra uomini e donne

Dove nascono battute, rituali di gruppo e dinamiche di potere, può nascere anche il cambiamento. Lo sport, con la sua forza educativa e la sua capacità di creare comunità, offre un’occasione unica per contrastare le radici della violenza di genere e allenare una cultura fondata su responsabilità, empatia e rispetto reciproco.

Negli spogliatoi degli uomini ci si imbatte spesso in battute e commenti all’apparenza leggeri, apprezzamenti detti a bassa voce o lanciati in aria con la sicurezza di chi si sente parte di un gruppo protetto. È un linguaggio che nasce nella complicità, che sembra innocuo proprio perché “tutti lo fanno”, tutti lo ascoltano, nessuno lo mette in discussione. Eppure, dietro certe frasi, si intravede una cultura che di leggero ha ben poco: la leggerezza sta semmai nella mancata consapevolezza di ciò che queste parole trasmettono ai più giovani e di come contribuiscano a normalizzare, prima nel linguaggio e poi nei comportamenti, una visione delle donne improntata alla svalutazione, alla colpevolizzazione o alla derisione.

Lo spogliatoio diventa così un luogo sospeso, una zona percepita come immune da giudizi esterni, dove ciò che si dice e si fa “resta lì dentro”. È proprio in questi spazi che il branco può influenzare gli individui, indirizzare il tono delle conversazioni e modellare comportamenti che possono poi trascinare i propri effetti fuori dalle mura del contesto sportivo. Così, frasi degradanti o atteggiamenti aggressivi appresi negli allenamenti o nelle dinamiche di squadra possono riemergere in altri luoghi della socialità: bar, locali notturni, strade, e soprattutto nelle mura domestiche, che sono purtroppo tra i contesti dove si consuma la maggior parte delle violenze contro le donne, spesso nel silenzio più assordante.

Eppure, è proprio in questi stessi ambienti che può avvenire il cambiamento. Perché lo sport è anche e soprattutto organizzazione, disciplina, rispetto, gioco di squadra, capacità di misurarsi con la frustrazione della sconfitta e la responsabilità della vittoria. Lo sport può ferire, ma lo sport può anche guarire: è uno dei pochi contesti dove è possibile allenare comportamenti, modelli e linguaggi che verranno poi portati nella vita.

Per questo diventa fondamentale il ruolo degli allenatori e dei coach, non solo come tecnici ma come educatori. Figure preparate alla gestione dei conflitti, capaci di intervenire quando emergono minacce, intimidazioni o atteggiamenti aggressivi tra compagni, e di riconoscere quei comportamenti figli di una mascolinità tossica basata sulla durezza, sulla sopraffazione e sull’assenza di vulnerabilità. Una cultura che, se non viene corretta, può diventare terreno fertile per la violenza.

Non mancano poi testimonianze di Atleti come Giusi Versace e Luigi Busà, impegnati pubblicamente nella lotta alla violenza contro le donne, che ricordano come lo sport possa essere veicolo di messaggi profondi: “I valori veri dello sport, sacrificio, impegno, rispetto, possono contagiare positivamente”, ha ribadito Versace; mentre Busà sottolinea come il proprio percorso olimpico sia “solo un tramite per mandare un messaggio” ai ragazzi e alle donne, affinché trovino il coraggio di intraprendere la via giusta.

Anche Valentina Vezzali racconta come, per dimostrare che essere donna, mamma e atleta fosse possibile, abbia dovuto “vincere i mondiali di scherma a Lipsia 2005 solo pochi mesi dopo il primo parto, una frase che rivela quanto si debba ancora lavorare alla normalizzazione della presenza di atlete madri femminile nel contesto sportivo italiano.

Ci sono poi casi che mostrano il lato oscuro dello sport quando la cultura interna si chiude in sé stessa. Il caso Penn State emerso nel 2011, negli Stati Uniti, è emblematico: la cultura del football universitario è stata talmente protetta da diventare uno scudo dietro cui nascondere violenze e abusi ai danni dei minori avvenute nell’arco di 15 anni. Il prestigio sportivo ha avuto la precedenza sulla tutela delle vittime, dimostrando che lo sport, quando diventa potere, può trasformarsi in copertura e amplificatore della violenza.

Ma non deve essere così. Lo sport può e deve essere anche strumento per rompere il silenzio. Per questo in molti Paesi si chiede di introdurre formazione obbligatoria negli ambienti sportivi, rivolta ad allenatori, staff e atleti, affinché siano in grado di riconoscere i segnali di violenza, intervenire tempestivamente e modificare il clima culturale delle squadre.

Il contesto sportivo è infatti un luogo privilegiato per attivare i bystander, cioè quei compagni di squadra che possono intervenire su frasi, comportamenti o pressioni violente: un ragazzo che corregge l’amico su una battuta sessista vale più di dieci campagne di sensibilizzazione. È nell’azione quotidiana, nel linguaggio, nelle scelte di gruppo che si gioca la partita più importante.

L’associazione che ho l’onore di presiedere, Strongers Social Club, con il progetto “Uniti per lo sport” ha portato in campo da calcetto ragazzi e ragazze Under 14, coinvolgendo anche ragazzi sordo muti e ragazzi con serie difficoltà sociali ed economiche. In quelle partite c’era solo lo sport, dimostrando che non esistono categorie, ruoli separati o barriere, esiste solo la cultura della relazione fra esseri umani.

Se ben guidato, lo sport non solo contrasta la violenza: cambia gli uomini, cambia le donne, cambia il modo in cui si sta insieme, ci ricorda che il rispetto si impara, che l’uguaglianza si pratica e ci mostra che, come in ogni partita, vincere davvero significa vincere insieme.

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