Ivana Lo Stimolo è una broker immobiliare a New York e fondatrice della rete New York Italian Women, una comunità nata per creare connessioni e supporto tra le donne italiane a New York. Con un lavoro che integra esperienza professionale e impegno sociale, Ivana ha costruito uno spazio di confronto che favorisce consapevolezza, ascolto e collaborazione. In occasione della Giornata contro la violenza sulle donne, il suo contributo offre uno sguardo concreto su quanto sia fondamentale riconoscere i segnali, parlare, denunciare e fare rete. L’abbiamo intervistata per ilNewyorkese.
In che modo l’associazione New York Italian Women rappresenta per lei una vera e propria “rete di sentinelle”, fatta di donne che si sostengono, si ascoltano e condividono esperienze?
L’associazione è nata innanzitutto da un mio bisogno personale. New York è una città complessa, soprattutto per una donna appena arrivata, e non esisteva un luogo in cui sentissi di potermi riconoscere. New York Italian Women è nata così: dal desiderio di condividere, di orientarmi più rapidamente nella città e di creare uno spazio in cui non sentirsi sole. Questa rete, per me, rappresenta proprio questo: un luogo sicuro in cui condividere esperienze, in cui ognuna possa sentirsi vista e valorizzata. Negli anni è diventato anche un punto di riferimento concreto, un posto in cui chiedere aiuto. Sono arrivate richieste di avvocati, di assistenti sociali, di supporto per situazioni delicate. E questo accade solo quando c’è fiducia, quando si sa che lì si può raccontare anche ciò che è difficile
È mai capitato un episodio in cui una delle donne del gruppo abbia avuto bisogno di aiuto — anche per motivi non direttamente legati alla violenza — e in cui la rete abbia dimostrato concretamente il proprio valore?
Sì, ed è un esempio che ricordo molto bene, perché racconta esattamente il senso di non isolarsi. C’è stato un caso in cui una donna del gruppo ha dovuto allontanarsi dal proprio domicilio. Non entro nei dettagli, ma era un momento delicato, una sorta di transizione in cui non sapeva come muoversi né a chi rivolgersi. Un gruppo di donne della rete si è subito attivato per aiutarla: l’hanno accompagnata passo dopo passo, offrendole informazioni, presenza e supporto concreto. Per chi arriva dall’Italia, spesso non è immediato capire quali siano i luoghi sicuri o le strutture a cui rivolgersi negli Stati Uniti. Vederle mobilitarsi spontaneamente è stato molto significativo. Quel primo gesto — trovare un posto in cui potersi sentire al sicuro — è fondamentale. Da lì si può iniziare a prendere decisioni più consapevoli, orientate alla libertà e al benessere. Ed è proprio questo che una rete offre: un ambiente protetto che dà coraggio, che permette di aprirsi e di chiedere aiuto.
Quali sfide hai dovuto affrontare quando ha iniziato a creare una comunità di donne italiane nella città?
Molte donne si ritrovano nelle stesse dinamiche che ho vissuto anch’io. Pur avendo studiato e lavorato negli Stati Uniti, quando sono tornata a New York — questa volta per seguire mio marito — mi sono resa conto che ricostruirsi una vita qui comporta inevitabilmente dei sentimenti contrastanti. Noi italiane abbiamo un legame profondo con la famiglia d’origine, un imprinting culturale che spesso porta con sé un senso di colpa: quello di essere lontane, di essersi “spostate”, di non poter partecipare alla vita quotidiana dei nostri cari. Questo influisce anche sul modo in cui viviamo la città: a volte diventa difficile goderla pienamente proprio per questo peso emotivo.
In più, arrivare qui significa ricostruire da zero una realtà personale e professionale. E ci si accorge presto che questa sensazione di smarrimento non riguarda solo chi viene per motivi familiari, ma anche chi si trasferisce per una carriera importante: tutte, in modi diversi, affrontiamo la stessa transizione.Le sfide si superano soprattutto affidandosi all’esperienza delle altre donne: quelle che fanno parte del mio gruppo, ma anche quelle incontrate attraverso altre associazioni. Per questo è essenziale costruire una base solida, uno zoccolo duro di amicizie autentiche. È ciò che permette di trovare il proprio equilibrio, di “spiccare il volo”, e di farlo senza isolarsi né ghettizzarsi. Una rete femminile forte accelera questo percorso e lo rende possibile.
C’è stato un momento in cui ha sentito il bisogno di “denunciare” o esplicitare un’ingiustizia, una difficoltà o una discriminazione vissuta nella tua vita personale o professionale?
Nel mio caso, devo dire di essere stata fortunata: il settore immobiliare, in cui lavoro, è composto in larga parte da donne, e questo ha reso più naturale il mio percorso. Forse è anche uno dei motivi per cui ho scelto questa professione. Però, nonostante questo, mi sono trovata anch’io in situazioni di disagio per comportamenti poco corretti da parte di colleghi. Come molte donne, non ne ho parlato. Non l’ho condiviso né con colleghi né con i miei superiori. E credo che il motivo sia quella linea sottile e ambigua che separa una sensazione da un fatto oggettivo: a volte è difficile capire se stai “esagerando” o se ciò che provi è realmente fondato. Ed è qui che torna il valore di una comunità: quando scopri che la stessa esperienza è accaduta anche ad altre due o tre donne, improvvisamente ciò che hai vissuto prende forma, si convalida. Diventa reale. Ma questo tipo di condivisione può avvenire solo in un ambiente sicuro, con persone che capiscono e di cui ti fidi.Ecco perché una rete come la nostra è così importante: perché permette di sentirsi meno sole e di riconoscere che alcune esperienze non sono “esagerazioni”, ma realtà che meritano ascolto e riconoscimento.
Da madre di tre figli maschi, quali valori o atteggiamenti hai ritenuto fondamentale trasmettere loro rispetto al tema del rispetto, del linguaggio e degli stereotipi di genere?
Mi considero quasi una “minoranza” in casa: avere tre maschi in una famiglia che resta profondamente legata alle sue radici italiane mi ha portato spesso a riflettere sul linguaggio e sugli stereotipi che tendiamo a dare per scontati. Sono partita dalle piccole cose, quelle che quando ero ragazza venivano considerate normali e di cui non si parlava. Ho sempre corretto commenti che possono sembrare innocui — da familiari o anche dai miei figli — ma che invece non lo sono: frasi come “non piangere, sembri una bambina” oppure “alzati, non sei mica una bambina”. Questo modo di parlare trasmette un’idea sbagliata sia di cosa significhi essere forti, sia del valore delle donne. Con i miei figli ho sempre lavorato proprio su questo: far capire che il rispetto passa anche dal linguaggio e da come ci rivolgiamo agli altri. Sono dettagli, ma formano la base di come percepiamo il mondo. Credo che oggi sia più difficile crescere una ragazza. Non tanto per differenze educative in famiglia, ma per il peso esterno dei social e del confronto costante. Le ragazze crescono più in fretta, si trovano esposte a modelli irrealistici e a una competizione continua, spesso legata all’immagine e alla performance. I maschi affrontano altre sfide, certamente, ma le ragazze — soprattutto in Italia — si scontrano ancora con una cultura che fatica ad accettare la libertà femminile, che spesso non apprezza le donne che vogliono farsi sentire. Qui negli Stati Uniti forse un po’ meno, ma quel retaggio culturale esiste ancora.
Dopo quindici anni dalla creazione dell’associazione, qual è la conquista che senti maggiormente tua?
Credo che ciò che mi rende più orgogliosa sia vedere quante donne siano riuscite a ricostruire una carriera, una quotidianità, un modo di vivere grazie alla rete. Non perché io abbia fatto qualcosa in particolare, ma perché ho creato un mezzo: un luogo in cui le persone potessero incontrarsi. Ma in realtà io sono solo stata un tramite: il valore vero sta nei legami che loro hanno creato tra di loro. Il fatto che molte siano riuscite a reinventarsi grazie all’incontro con altre donne della rete è per me la conquista più grande. E poi c’è un altro aspetto: il fatto che abbiamo imparato a non tenere tutto dentro. A condividere timori, difficoltà, frustrazioni. A non isolarci. Sapere che ci siamo, che possiamo aprirci e che qualcuna ci ascolterà, è forse la conquista più preziosa di tutte.