Giusi Fasano e il racconto difficile della violenza: “Ogni parola può essere una ferita”

Dalla storia di Lucia Annibali a quella di Giulia Cecchettin, Giusi Fasano, giornalista del Corriere della Sera e autrice, riflette su come il giornalismo può, e deve, rompere gli stereotipi che alimentano una cultura che ancora oggi normalizza la violenza contro le donne

In occasione del 25 novembre, giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne, Giusi Fasano – tra le firme più attente della cronaca nera e giudiziaria – mette a fuoco limiti e responsabilità dell’informazione, il peso delle parole, il dolore delle famiglie e l’urgenza di proteggere chi resta, soprattutto gli orfani dei femminicidi.

Lei segue la cronaca nera e giudiziaria da molti anni. C’è un caso di violenza di genere che ha seguito da vicino, che lha colpita più degli altri?

C’è un caso che per me è stata “la storia” ed è quello di Lucia Annibali –  sfregiata con l’acido da due sicari mandati dal suo ex-fidanzato – non solo per aver scritto insieme a lei il libro “Io ci sono. La mia storia di non amore”, dal quale è stato tratto anche un film, che racconta la sua vicenda ma perché la sua aggressione ha scosso profondamente il Paese. Si è trattato di un tipo di violenza che, fino a quel momento – era il 2013 – non aveva trovato un vero spazio nella narrazione pubblica, se non per casi di tipo diverso rispetto a quello di Lucia. Per me è un caso particolarmente significativo perché ho potuto approfondire ogni dettaglio, conoscere Lucia da vicino, diventare parte della sua storia umana. 

Sono andata molto a fondo: conosco retroscena e dettagli che mi hanno ricordato, una volta di più, quanto sia banale e ripetitivo lo schema che porta al male. Lo sfregio al volto, che è sfregio all’identità, è diventato simbolo potentissimo.

E qual è, secondo lei, il caso che ha avuto il maggior impatto sullopinione pubblica?

Se guardiamo agli ultimi anni, è impossibile non pensare a Giulia Cecchettin. La sua vicenda è diventata centrale, anche per la reazione che ha generato. La frase di sua sorella Elena – “Non è un mostro: è un figlio sano del patriarcato” – riferita al ragazzo che l’ha uccisa, ha sollevato il velo su una parola che avevamo messo in soffitta: patriarcato.

Quella parola, in quel contesto, ha rimesso al centro il nodo fondamentale della violenza di genere. È vero, il patriarcato non esiste più nelle leggi, ma nei fatti? La predominanza maschile continua a manifestarsi nelle famiglie, nelle relazioni, sul lavoro, nelle aspettative sociali.

Il caso Cecchettin ha costretto l’opinione pubblica a guardare dentro quella vecchia scatola che cercavamo di non aprire. Le reazioni, incluse le maldicenze verso la famiglia Cecchettin, sono esse stesse espressione di una cultura patriarcale che è viva in mezzo a noi. Per questo quel caso resta, a mio parere, un punto di svolta.

Nel racconto di un femminicidio o di un caso di violenza/abuso subito da una donna, qual è la principale criticità che le giornaliste e i giornalisti incontrano nel conciliare lesigenza di informare con quella di evitare spettacolarizzazioni o narrazioni stereotipate?

Ogni caso è diverso e ogni giornalista è diverso, per sensibilità, esperienza, conoscenza. Non metterei tutto in un unico calderone.

Certo, ci sono regole di base, oggi molto più rispettate rispetto a dieci anni fa. Gli errori ci sono ancora, ma non dipendono solo dai giornalisti. Pensiamo a un fatto che accade alle dieci di sera: devi raccogliere le informazioni in fretta per chiudere l’edizione del giornale che esce il giorno dopo. Il rischio è affidarsi a ciò che si trova sul web e lasciarsi abbagliare da narrazioni imprecise.

La differenza la fa il mestiere: non cadere negli errori banali, non farsi influenzare da stereotipi già pronti. E soprattutto ricordare che ci sono cose che non si devono fare, mai.

Quali sono i cambiamenti più rilevanti, nel modo di raccontare la violenza sulle donne, che ha osservato nelle redazioni e nel linguaggio giornalistico?

Rispetto ai miei inizi, un grande passo avanti è stato smontare l’idea che una donna “se la sia andata a cercare”. Una volta era molto comune leggere riferimenti al fatto che “era da sola”, “era tardi”, “era in un posto in cui non doveva essere”. Oggi si è capito, o almeno spero, che la violenza appartiene sempre e solo a chi la commette.

È fondamentale spostare l’attenzione da lei a lui. Dire “lo ha lasciato e lui l’ha uccisa” è un fatto, ma va raccontato con precisione. Non con formule come “raptus di gelosia”, che non esiste come categoria psichiatrica e cancella tutto il percorso che precede la violenza.

I segnali ci sono sempre. Il problema è saperli riconoscere. E sì, spesso è un problema anche delle donne, che tendono a perdonare, giustificare, a dire “lo cambio io”. Un’altra domanda che dobbiamo porci è: perché non esiste la stessa frequenza di uomini uccisi da donne per essere state lasciate? Forse perché molte donne hanno maggiore capacità di convivere con il rifiuto e l’abbandono.

Una cattiva narrazione è sempre il germoglio di una giustificazione verso gli uomini che compiono violenza contro le donne. Ogni parola può trasformarsi in una seconda ferita. Bisogna partire dall’altro capo del filo: domandarsi perché l’uomo ha reagito usando violenza, invece di concentrarsi – per esempio – sul fatto che lei lo ha lasciato.

Quali responsabilità hanno giornali e tv nel contrastare la cultura che normalizza la violenza di genere?

La responsabilità varia molto a seconda del mezzo. Un conto è scrivere un articolo, avere il tempo di riflettere su ogni parola, pesarla, sceglierla; un altro è essere in un collegamento in diretta al tg, dove in pochissimo tempo devi dare quante più informazioni o aggiornamenti possibili o in un talk tv, nel bel mezzo di una conversazione o discussione; un altro ancora è pubblicare un post sui social come espressione di un pensiero.

Su tutti questi piani, però, contano la sensibilità personale e la capacità di scegliere cosa dire e come dirlo. Il rischio è di frammentare un racconto complesso come quello del rapporto tra le persone o della violenza, in pillole, sui social o in tv, che non rendano abbastanza giustizia. 

La responsabilità dell’impatto di tutto ciò è direttamente proporzionale al peso che ha chi scrive o dice quella cosa. Faccio un esempio: quando una figura pubblica fa una battuta sessista, anche se pensa di “scherzare”, legittima a fare lo stesso. È così che si alimenta l’idea che sia normale dire che “una ragazza con la minigonna se l’è cercata” o che una donna valga solo in quanto desiderabile.

La responsabilità è collettiva: dai media in generale, dai social alla tv, alla pubblicità che ancora oggi mortifica e strumentalizza le donne.

Raccontare questi delitti comporta un forte impatto emotivo. Come si gestisce lequilibrio fra coinvolgimento personale e distanza professionale?

La mia emotività, in questi casi, non conta nulla rispetto a quella delle persone coinvolte.
Provo a mettermi una corazza per lavorare bene: essere professionale per me significa essere delicati, non insistere quando qualcuno non se la sente di parlare, non violare un dolore che non ci appartiene.

Cerco di arrivare alle persone attraverso chi hanno già accanto, persone di fiducia, in modo che si sentano più a loro agio – quando si può – e poi, quando è possibile, cerco di capire, il loro punto di vista. Vale per le vittime, ma anche per gli autori dei reati: comprendere non vuol dire giustificare.

La delicatezza è la cosa più importante: non portare le persone nelle zone d’ombra da cui cercano di stare lontane.

Poi, certo, l’impatto emotivo arriva comunque, soprattutto poi, quando ci sono bambini coinvolti, la corazza non serve più a niente. Parlare con una madre che perde un figlio è devastante. Ma la ricchezza delle persone, nel dolore e nella gioia, sta in ciò che hanno vissuto. Io, quello che sono oggi, lo sono anche grazie alle tante persone che ho incontrato lavorando in cronaca e che sono rimaste, in qualche modo, parte della mia vita. Mi hanno cambiata.

Gli orfani dei femminicidi sono spesso dimenticati. Cosa pensa della loro condizione e delle battaglie sul piano normativo?

Sono bambini che hanno visto il padre uccidere la madre, a volte il padre stesso si uccide o finisce in carcere. Le loro vite sono segnate per sempre, insieme a quelle dei nonni o delle famiglie. L’iter che li aspetta è faticosissimo e la burocrazia non li aiuta abbastanza: penso alla battaglia di Vanessa Mele, che si è opposta affinché suo padre – assassino di sua madre – non potesse ereditare né beneficiare di alcunché.

Un caso come questo è la conferma di quanto siano poi le vittime a cambiare davvero le cose. Come è successo con Lucia, che dal suo sfregio ha fatto nascere una battaglia contro l’“omicidio di identità”.

Immagine di Cecilia Gaudenzi

Cecilia Gaudenzi

Giornalista professionista e storyteller. È nata a Roma nel 1991 “sotto il segno dei pesci”, dove si è laureata con lode in Scienze Politiche, all’Università di Roma Tre e dove vive stabilmente. Musica, cinema, letteratura, politica, serie tv, podcast, reportage e terzo settore. Il vizio di scrivere, di tutto e su tutto ce l’ha fin da bambina. Le piace conoscere, capire, raccontare e soprattutto, fare domande. Crede nello scambio di idee e nella contaminazione. Ha girato l'Africa per dare voce all'impegno di donne e uomini che dedicano la loro vita agli altri. La sua parola preferita è resilienza.

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