Un linguaggio che divide: l’uso del termine “persone con utero” 

Se è vero che il linguaggio che utilizziamo deve essere il più inclusivo possibile, non sembra corretto eliminare la complessità di un intero genere

Recentemente, Sky TG24 ha utilizzato sui social network il termine “persone con utero”, riferito al genere femminile, scatenando un dibattito acceso. Questa scelta linguistica, adottata da una delle testate giornalistiche più seguite, non può passare inosservata: non solo solleva interrogativi sul linguaggio inclusivo, ma mette in discussione il rispetto e il riconoscimento dell’identità femminile.

Definire le donne come “persone con utero” rappresenta una semplificazione offensiva e potenzialmente divisiva. Le donne non possono essere ridotte a un elemento della loro biologia: il loro essere è radicato in una storia, una cultura, e un’identità che vanno ben oltre l’apparato riproduttivo. Questa espressione, benché forse adottata per ragioni di inclusività, finisce per ottenere l’effetto opposto: cancella la specificità dell’identità femminile e banalizza secoli di lotte per il riconoscimento dei diritti delle donne.

Il ruolo del linguaggio nei media, qual è? Il linguaggio non è mai neutrale. Le parole plasmano la percezione della realtà e influiscono sulla costruzione sociale. Usare un termine come “persone con utero” decontestualizza e riduce un’intera identità a un fattore puramente biologico, annullando la complessità dell’esperienza femminile. I media hanno il compito cruciale di riflettere e rispettare la realtà che raccontano. In questo caso, Sky TG24 ha mancato di considerare le implicazioni di una terminologia che svilisce l’essenza dell’identità femminile.

Si parla tanto e troppo di politically correct, creando spesso difficoltà per definire taluni aspetti, professioni o temi della società, e poi si va a cercare “inclusività “ creando un grave errore di comunicazione. 

Il dibattito sul linguaggio inclusivo è importante, ma deve essere affrontato con equilibrio e consapevolezza. Inclusività non significa appiattire o cancellare le identità esistenti, bensì arricchire il linguaggio per rappresentare tutte le esperienze umane. Usare termini riduttivi come “persone con utero” è una comunicazione scorretta, che rischia di creare divisioni anziché ponti. La vera inclusività non elimina le specificità, ma le abbraccia, trovando modi per riconoscere la diversità senza sacrificare l’identità.

Un appello: è fondamentale che i media, in quanto pilastri della comunicazione pubblica, riflettano attentamente sulle scelte linguistiche. Le parole hanno conseguenze e devono essere usate per unire, rispettare e rappresentare, non per ridurre o frammentare. Le donne meritano di essere riconosciute nella loro interezza, non definite artificialmente da espressioni che banalizzano la loro identità.

L’uso di termini come “persone con utero” da parte di una testata come Sky TG24 non è solo una scelta infelice, ma un segnale di una più ampia tendenza a trascurare la specificità dell’identità femminile. Anche perché, loro malgrado, esistono donne alle quali l’utero è stato asportato, non per questo sono meno identitarie. È necessario un cambio di passo: il linguaggio deve essere strumento di rispetto e valorizzazione, non di riduzione o cancellazione.

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Antonella Gramigna

Giornalista toscana con esperienza nel settore enogastronomico, luxury brand e politica internazionale. Laureata in Scienze della Comunicazione e con un Master in Comunicazione Politica, promuove il Made in Italy e collabora con gli Stati Uniti. Scrive per stampa e web, con focus sull’atlantismo.

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