Thomas Jefferson e il “riso speciale” importato dall’Italia: uno spunto per l’oggi

Thomas Jefferson è una figura iconica nella storia e nella simbologia americana, uno dei quattro Presidenti ritratti con le sculture di 18 metri sul Monte Rushmore: qualcuno ha dei dubbi che uno di quelli (Theodore Roosevelt) sia uno dei quattro più rappresentativi dei primi 150 anni della storia statunitense, ma nessuno dubita che Jefferson, come Lincoln e George Washington, stia a pieno titolo in quella sorta di Olimpo di roccia degli “dei” della nazione americana. Ancora oggi si discute delle idee e dell’azione politica di questo virginiano, ma almeno una parte della sua eredità, quella umanitaria e repubblicana (cosa molto diversa dal Republican Party del ‘900 e di oggi) è ancora viva.

Non è questa la sede per inoltrarsi in un dibattito storiografico su Jefferson, ma vorremmo prendere spunto da un fatto interessante per il nostro Paese. In una lettera a un amico, raccomandava di scrivere sulla propria epigrafe le parole che sembravano indicare le tre cose più rappresentative di una lunga esistenza, che lo statista indicava in quest’ordine: Thomas Jefferson, autore della Declaration of Independence, e fin qui nulla di strano (anche se, in realtà, fu il principale estensore di un testo redatto da un Comitato di cinque persone); autore del Bill of Rights della Virginia, con una libertà religiosa che per Jefferson era il terreno di verifica della libertà di pensiero; infine, il fatto di essere stato lui l’importatore in America di uno speciale tipo di “Italian rice”, scoperto da Jefferson in uno dei suoi viaggi in Italia.

Lo statista, partendo dalla Francia in cui era il capo della diplomazia americana in Europa, aveva viaggiato anche fra Torino e Milano, e a Vercelli aveva conosciuto un tipo di riso, che aveva giudicato talmente particolare come qualità da portarlo con sé al ritorno in patria. Sembrerebbe dunque che la terza vicenda più importante nella vita di quest’uomo non fosse l’essere stato il terzo Presidente degli Stati Uniti, o un Secretary of State, ma il fatto di aver importato dall’Italia un prodotto umile e semplice: il riso.

Questo fatto mi ha sempre colpito, e la risposta non può essere solo nella passione di Jefferson per tutto quel che di scientifico, anche nell’agricoltura, vi fosse. La cultura di quest’uomo era talmente vasta e poliedrica, che i suoi interessi spaziavano in ogni direzione della CONOSCENZA, dalla storia alla biologia, dagli autori classici alla fisica, dall’arte pittorica alla chimica di allora, dalla scultura alla medicina, dal diritto all’architettura (celebre la sua passione per Palladio, con la visita alle ville di quel maestro nel territorio vicentino). Jefferson era considerato uno dei maggiori eruditi del mondo nei decenni fra ‘700 e ‘800, e lo provano due fatti molto diversi. Quando nel 1814 gli inglesi invasero Washington e bruciarono il Capitol con la prima Library of Congress, per sostituirla si pensò di ricorrere alla biblioteca privata di Jefferson, che costituì il primo nucleo di quella che sarebbe diventata la nuova Library, oggi la più grande al mondo. Oppure, si può ricordare la frase che il Presidente Kennedy disse quando convocò nello Studio Ovale un gruppo di Premi Nobel, dicendo che quel giorno vi si trovava la più grande concentrazione di genio, dai tempi in cui Thomas Jefferson vi pranzava da solo.

Questo ci fa capire quanto ampia fosse la prospettiva intellettuale di Jefferson, nel momento in cui faceva una sorta di graduatoria delle tre cose più rilevanti, fra le centinaia, che aveva costruito. In effetti, egli mise un impegno notevole per ammodernare le tecniche agricole e le colture, ma quella menzione del “riso” dà anche l’idea di come fosse importante per lui cogliere quello che oggi il Marketing chiama il “valore distintivo” di un prodotto. E allora chiediamoci: se quel riso era “speciale” e unico, oggi ci sono ancora prodotti materiali o del pensiero che l’Italia può “portare in America”? Certo che ve ne sono, e non solo nei settori classici (alimentare, moda, automotive di lusso …), ma anche nella meccatronica, nel packaging, nell’oleodinamica, e in altri settori, così come nei servizi o consulenze di eccellenza. Abbiamo ancora vari tipi di “riso” che possono fare centro fra i clienti americani, ma dobbiamo imparare ad affinare al massimo il contenuto distintivo di certi prodotti e servizi, a capire i processi per entrare nel mercato più grande del mondo, e a ragionare in modo globale. Anche a livello di competitività delle aziende, infatti, un approccio sovranista è una trappola: un prodotto leader è motivo di “orgoglio italiano” se è “italiano per il mondo”, e non se è autocelebrativo. Un prodotto si afferma in modo duraturo se è il frutto di un dialogo con clienti diversi da noi, per un motivo molto semplice: l’Italia non è più il centro del mondo, e nemmeno gli Usa. Ma gli Usa ci possono aiutare a capire una parte del mondo, e Jefferson condividerebbe

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Federico Mioni

Direttore di Federmanager Academy e docente nei Master di IULM e Università Cattolica.

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