Natale a Capriana

Monsignor Hilary Franco, la Meneghina e il mistero di una presenza inattesa sull’altare di Maria Domenica Lazzeri

La mattina di Natale a Capriana non assomiglia alla mattina di Natale di nessun altro luogo che io conosca. Non c’è il traffico nervoso delle grandi città, non c’è l’aria vagamente teatrale delle celebrazioni solenni. C’è invece un silenzio netto, montano, quasi ostinato. È in questo silenzio che sono entrato nella chiesa di San Bartolomeo, sapendo che avrei assistito a qualcosa che, in un modo o nell’altro, avrebbe chiesto di essere raccontato.

Non ero lì non per dovere, né per incarico, ma per una forma di fedeltà difficile da spiegare: fedeltà a una storia che da anni mi accompagna, quella di Maria Domenica Lazzeri, la cosiddetta Meneghina di Capriana. Due giorni prima mi telefona Giulio Picolli, mio amico di New York, e mi dice che, nemmeno lui conosce il motivo, ma Monsignor Hilary Franco avrebbe celebrato la Messa proprio nel paesino della Valle di Fiemme che noi due conosciamo molto bene, ormai. Sapevo anche che non avrebbe dovuto essere lì. E già questo bastava a introdurre una sorta di tensione narrativa, tra ciò che è previsto e ciò che accade davvero.

Monsignor Franco è nato nel Bronx nel 1933. È uno di quegli uomini le cui parole lasciano un segno nel cuore di chi ascolta e si merita già un angolino nella storia della Chiesa del Novecento. Quasi settant’anni di sacerdozio, Roma, Washington, Mosca, New York. Ha servito sei papi, da Giovanni XXIII a Francesco. Seguace e curatore dell’opera del grande arcivescovo Fulton Sheen (1895-1979). Ricopre l’incarico di consigliere della Missione Permanente della Santa Sede alle Nazioni Unite. Il potere, la diplomazia, la fede messa alla prova nei luoghi in cui la fede sembra non servire a nulla. Tutto questo è vero. Tutto questo è scritto anche nel suo libro “Six Popes: A Son of the Church Remembers”. Ma quella mattina, davanti all’altare che custodisce le spoglie di una ragazza morta a vent’anni in un villaggio del Trentino, tutto questo sembrava improvvisamente secondario.

Durante l’omelia Monsignor Franco ha detto subito la frase che ha rotto subito il ghiaccio, riscaldando gli animi: «Non avevo nessuna intenzione di essere qui oggi, ma… la Provvidenza ha voluto che fossi qui». Non era una frase detta per effetto. Non c’era compiacimento. C’era piuttosto una specie di resa. Come se anche lui, abituato a leggere i segni del mondo, ammettesse che alcuni segni ci tocca subirli. Come i doni: è difficile non accettarli, no?

Mons. Hilary ha parlato di Maria Domenica Lazzeri chiamandola più volte “Vergine e Martire”. Ha insistito su quest’ultima parola, ripetendola quasi come a martello: «Martire, martire, martire, perché ha sofferto tantissimo nella sua vita». Non parlava del martirio come lo immaginiamo noi, sangue, persecuzioni, carne lacerata. Parlava di un martirio che non lascia immagini spettacolari, solo una durata: anni di immobilità, di dolore, di fame volontaria che non era suicidio ma offerta, secondo la fede di chi la guardava e la guarda ancora.

Ma per chi non la conoscesse ancora, chi è esattamente questa Maria Domenica Lazzeri? Nasce a Capriana nel 1815. A diciotto anni si ammala. Non si riprenderà più. Vive distesa, consuma il suo corpo fino quasi a sparire. Attira medici, vescovi, curiosi, scettici. Sul suo corpo, segni prodigiosi e inspiegabili. Muore nel 1848, a 33 anni. Viene sepolta qui. E qui resta. Papa Francesco l’ha dichiarata venerabile nel 2023. Il processo di beatificazione è in corso. Ma al di là delle procedure, ciò che resta è una domanda che non smette di disturbare: che senso ha una vita così?

Monsignor Franco ha dato una risposta che non pretendeva di essere definitiva. Ha detto che Maria Domenica ha dato la sua vita. Che è stato un dono del Signore per lei, ma anche per tutti noi. Che non dobbiamo dimenticare il segno che ci ha dato. E soprattutto ha parlato della sofferenza, non come valore in sé, ma come possibilità: possibilità di unirla a Cristo, di trasformarla in qualcosa che salva, che apre, che non si chiude su se stessa.

Mentre ascoltavo, pensavo a quanto sia facile parlare di sofferenza quando non è la tua. E a quanto sia difficile farlo senza cadere nella retorica. Eppure, in quel momento, non ho avuto la sensazione di essere manipolato. Ho avuto piuttosto la sensazione che qualcuno stesse rischiando una parola, sapendo che poteva sembrare inaccettabile.

In chiesa c’era anche Giulio. Lui è un imprenditore italo-americano, residente in New Jersey. Un uomo che, fino a pochi anni fa, non avrebbe mai immaginato di trovarsi lì, né tantomeno di legare la propria vita a quella di una sconosciuta mistica ottocentesca.

Nel 2020 arriva a Capriana quasi per caso. O così dice. Da dieci anni convive con una malattia che non trova soluzione. Dopo quella visita, la malattia comincia a regredire. I medici non sanno spiegare. Lui non pretende spiegazioni. Decide di restare fedele a ciò che è accaduto.

Da allora Giulio Picolli diventa uno dei principali promotori della devozione alla Meneghina negli Stati Uniti. Fonda l’Associazione Amici della Meneghina USA. Patrocina e promuove la prima biografia in lingua inglese di Maria Domenica Lazzeri, “The Gift. Life and wonders of Maria Domenica Lazzeri”, che ho pubblicato per Edizioni del faro, nell’aprile scorso. È il mio secondo libro su questa figura, dopo “La manutenzione dell’universo” del 2020. Li ho scritti non per convincere, ma per raccontare. Perché raccontare è spesso l’unico modo onesto di avvicinarsi a un mistero.

Alla fine della Messa, Giulio ha preso la parola. Era visibilmente commosso. Ha ringraziato tutti. Ha ringraziato Monsignor Franco. Ha ringraziato la Venerabile. Ha espresso la speranza che possa presto raggiungere la beatificazione. Non parlava da leader, non parlava da benefattore. Parlava da uomo che si sente debitore.

Uscendo dalla chiesa, ho pensato che quest’anno il Natale, a Capriana, per me non ha nulla di rassicurante. Non consola il mondo così com’è. Lo mette davanti a una domanda radicale: che cosa facciamo del dolore, del nostro e di quello degli altri? Monsignor Franco aveva parlato anche di questo, del mondo ferito, delle guerre, della pace annunciata dagli angeli. Aveva citato il motto scelto da Papa Leone XIV – che lo ha ricevuto il 3 luglio corso – “In Illo uno unum”. L’unità come responsabilità, non come slogan.

Non so quando Maria Domenica Lazzeri sarà beatificata. Non so se le parole pronunciate quella mattina avranno un seguito. So però che quella mattina ero lì, e che qualcosa forse è accaduto. E come spesso accade, non so dire esattamente cosa. Ma so che sarebbe stato un errore non raccontarlo.

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