Dal conflitto in Ucraina a quelli dell’Asia Occidentale, cosa succederà nel 2024?

Il sito di geopolitica Memri riporta un articolo della Rossiyskayia Gazeta, quotidiano ufficiale del governo russo. Il testo sembra essere un velato invito a continuare la guerra, rivolto a “local players” come Hamas, Huthi, Hezbollah, ma è anche una Maja desnuda che disvela le intenzioni di Putin e dei suoi alleati di stabilire un “nuovo ordine mondiale”.

“C’è qualcosa nei cataclismi attuali che li distingue dalle crisi precedenti… -scrive la Gazeta- …la grande riduzione delle capacità di intervento da parte delle Potenze esterne, anche le più importanti. Al contrario, i ‘local players’ hanno un maggiore spazio di azione”.  Questa non è una profezia ma logica. L’ordine mondiale è un procedimento e un impegno che -se accettato dai soggetti strategici decisivi- focalizza i problemi ed evita che questi crescano. Non c’è una ricetta assoluta, ma in generale le cose stanno in questo modo. Quando tutto ciò viene a cadere, i conflitti esplodono liberamente. (…) Il Medio Oriente (meglio definibile come Asia Occidentale), è l’immagine vivente di questa transizione: il vecchio ordine è finito, e non c’è alternativa. Il conflitto in Palestina tra Hamas e Israele, è il punto di partenza di un nuovo modello.

Gli attacchi americani e inglesi nello Yemen non hanno distrutto le forze militari degli Huthi. Gli scontri continuano. Si pensa che dietro gli Huthi ci sia l’Iran. Ci sono stati attacchi a obiettivi iraniani in Siria, Iraq, e anche in Pakistan… Anche la Turchia ha usato le armi in Siria e contro i Curdi. (…) Il problema curdo non è risolto, e gli USA non hanno un programma efficace nelle loro aree in Iraq e Siria…” Le forze internazionali in quell’area di crisi sono ormai esigue, e l’instabilità cresce.

“Secondo ogni punto di vista, il Medio Oriente e il mondo sono entrati in una lunga fase di ristrutturazione”, prosegue la Gazeta, che propone addirittura di tornare “allo spirito degli Accordi di Abramo”, immaginando Putin come uomo di pace o come un Obama dell’Est.
“Il 2024 porterà novità [conflitti?, Ndr] al quadro militare e politico… La ristrutturazione non riguarderà soltanto il Medio oriente”. Gli Usa e i loro alleati continuano ad attaccare gli Huthi. La Ue manderà tre unità navali nel Mar Rosso. Il ministro degli Esteri iraniano dice che Teheran non ha niente a che fare con gli Huthi e non controlla le loro azioni belliche. Il corpo delle Guardie rivoluzionarie iraniane ha attaccato basi del gruppo terrorista Jaish ul-Adl in Pakistan [si tratta di beluci iraniani separatisti, di confessione sunnita, Ndr]”.
Traducendo l’articolo dalla retorica putinista le guerre saranno lunghe e deterritorializzate, ovvero ovunque e da nessuna parte, come tutte le guerre fochiste e terroriste. Il Quartetto guidato dalla Russia, pur avendo una forza militare ed economica ridotta rispetto alle democrazie occidentali, è pronto a logorare l’avversario, cioè noi, in una guerra di trincea multiforme.


L’Apocalisse è nella nostra vita quotidiana

Viviamo tempi in cui l’apocalisse è usata come lubrificante per fare soldi, da parte di media, politica, ma anche dai comuni mortali. La qualità della vita va scemando (scemare è il verbo esatto). Ho passato mesi da incubo per vendere e comprare casa, tra notai, agenzie, una burocrazia da pithecanthropi erecti, geometri, ingegneri, elettricisti, antennisti, edili etc. Ripenso alle volture delle utenze, in particolare quella dell’acqua (Iren) e dei rifiuti urbani: ti chiedono ancora carta di identità, tessera sanitaria etc. Ti chiedono il documento notarile di proprietà. Ti chiedono le foto dei contatori. Ma non c’era l’autocertificazione? Non sono forse elettroniche, la carta di identità e quella col codice fiscale? Non sono cavoli loro i contatori che io devo fotografare? Non siamo forse noi a fare la raccolta differenziata per i loro stipendi? Macché, ti chiedono anche l’Ok dell’Ufficio Tributi, pur avendo davanti il tuo certificato di proprietà e quello del cambio di residenza nello stesso Comune.
Ecco perché scoppiano le guerre: i popoli sono sovietizzati e silenziati da dittature e burocrazie, ecco perché la pace ha perso la guerra contro la guerra. Siamo ammutoliti dai paradossi e dall’eccesso di fiction.

Geopolitica?
Bisognerà ripensare la così detta “geopolitica” allargandone l’orizzonte dal profilo geografico-economico a quello culturale. Agli individui viene strappata -paradossalmente proprio dal processo educativo scolastico e familiare- la capacità di pensare e costruire idee e cose. Come potrebbe un popolo rincretinito dalla didattica burocratica e dall’assenza genitoriale creare cambiamenti culturali e sociali? La fine della Storia non è avvenuta a livello mondiale, ma è avvenuta a livello culturale e sociale.
Dovremmo sfilare in corteo e votare contro noi stessi. L’unica cosa utile sarebbe quella di rendersi conto del mondo come è, e non farsi baggianare dalla sua versione finzionale.

La favola delle api di Mandeville: una importante questione di metodo
La favola delle api è un’opera del 1705, composta dall’olandese Bernard de Mandeville, legato alle prime idee illuministe che diedero una svolta all’Europa di quel secolo. Si tratta di un poemetto satirico la cui estrema sintesi è: non possono esistere società perfette. Il che viene rafforzato dal sottotitolo dell’opera: Vizi privati e pubbliche virtù, un motto divenuto d’uso comune. Sembra un tema pletorico, ma non è così: la Russia di Putin si propone come perfetta, così come la dittatura iraniana, ricoperta di una dorata maschera divina, che la dipinge come l’unica soluzione per questo mondo e quell’altro. Nel Novecento le tirannie nazifasciste e comuniste hanno tentato di creare la pseudo perfezione del superuomo di massa, e quella non meno falsa del superpartito di massa, che eliminando i ricchi avrebbe dato felicità ai poveri e libertà a tutti.

Anche le società occidentali hanno però il vizio di considerare la democrazia compiuta nella forma attuale come il “migliore dei mondi possibili” del Candide di Voltaire.
Franck Trentmann ne L’Impero delle cose (Torino, 2017), ci spiega perché il trionfo del conflitto come modo di risolvere le questioni tra i popoli è un problema culturale. Trentmann utilizza nel suo saggio strumenti vetero marxisti come la differenza tra valore d’uso e valore di scambio dei prodotti, cioè se io compro una merce perché realmente mi serve sono Ok, ma non lo sono se vengo allettato dal feticcio della pubblicità e da quello del piccolo accumulo del piccolo borghese d’antàn.

In effetti i numeri confermano che siamo in presenza di un eccesso. Per esempio in media un cittadino tedesco possiede diecimila oggetti. Nel 2013 nel Regno Unito erano presenti “sei miliardi di capi di abbigliamento, circa un centinaio per ogni adulto, e un quarto di essi non lasciava mai il guardaroba”. Il capitalismo si è evoluto da società monetaria a società del consumo. Negli anni ’60 del secolo scorso il sociologo Herbert Marcuse parlò di società dei consumi, la cui reificazione appiattiva le persone (“L’uomo a una dimensione” fu un suo bestseller molto “consumato” nel 1968). Oggi le classi delle popolazioni occidentali si dividono in grandi consumatori e piccoli consumatori. Nei secoli passati consumare significava distruggere e bruciare, ma già Adam Smith riteneva che “il consumo è il solo scopo obiettivo di tutto il ciclo produttivo”.
Il libero mercato è certamente la strada migliore per la pace e l’arricchimento delle nazioni, ma perché oggi si devono incentivare consumo e sprechi? Le nazioni non riescono più a fare quadrare i conti, come le api di Mandeville, perché il potere non può tornare a prima di Otto von Bismark, eliminando il welfare in società sempre più anziane. Servirebbe un cambio di passo culturale, come lo fu l’illuminismo per la rivoluzione americana e quella industriale (più che per quella francese).

La degenerazione educativa
Per un balzo in avanti culturale ci sono diversi ostacoli: le innovazioni artistiche e culturali oggi sono sostituite dalle innovazioni nel campo dei media e della tecnologia. La scuola è una portacontainer che trasporta le generazioni da un’età all’altra e che -tranne gli eroici docenti in grado di trasmettere passione per il sapere e per il senso critico- fa babysitteraggio, con genitori sempre più disinteressati al solo elemento fondante per la buona crescita, la didattica.
Risultato: siamo di nuovo di fronte a un mondo in cui l’idea di andare al di là del bene e del male di Friedrich Nietzsche viene assunta non più da Lenin, Stalin o Hitler, ma dai media, dai videogame, persino dai film di animazione per i bambini, ormai censurati in nome della “natura” così come viene intesa dai documentari iperreali e di autofiction, per non parlare delle altre schifezze destinate a bambini predestinati all’idiozia. Di fronte ciò rimangono isole felici, come Hayao Miyazaki e la sua “Città incantata”.

Il film di animazione La Città incantata ci dice che si può ancora vincere nel processo educativo, che il binomio Scienza-Coscienza funziona meglio di Scienza-Religione, dato che le religioni occidentali sono diventate politica e Ong (ma allora meglio una Ong), e dato che le religioni asiatiche sono uno strumento di sterminio in mano al potere centrale, dalla Russia all’Afganistan al Nord Corea, senza dimenticare la Cina che come forma cultuale assume il sacerdozio nel Partito comunista.
“Coscienza” è Spinoza, è il messaggio cristiano epurato dal cristianesimo materiale, è la città incantata (e non gentrificata) di Miyazaki. Il titolo originale del film dell’autore giapponese significa “Chihiro rapita dallo spirito”. Per il regista ciò che conta “non sono le parole, ma le emozioni sottostanti” (le parole sono quanto serve per mentire, secondo la semiotica). Poi è vero che i geni sono spesso dei paleosauri in politica, e Miyazaki col film di animazione “Porco rosso” sembra quasi un fanatico togliattiano anni ’50 o un redattore de Il Venerdi di Repubblica. Anche in La città incantata vi sono digressioni politico sociali. Il Senza Volto regala oro e ingoia continuamente cibo per colmare il suo vuoti (vedi il discorso sui consumi non necessari di Trentmann ne L’Impero delle cose. Consumi forse inconsciamente sacrificali, come li descrisse Ernesto de Martino in “La fine del mondo”, trattando della neo-religione comunista.
La bambina Chihiro offre al Senza volto un’amicizia senza richieste e pretese. Alcuni sostengono che Senza volto e Chihiro sono la split personality della stessa persona, cioè di una bambina che vive nella malinconia e nell’inquietudine del passaggio dall’infanzia all’adolescenza, come lascerebbe intendere il trasloco familiare che apre il film. Ma possiamo anche leggere l’amicizia con Senza Volto come un insegnamento politico-sociale: non si conquista il potere con la forza, ma con l’affettività e la solidarietà senza utilizzare la conflittualità.

       Miyazaki descrive un’altra via rispetto a quella che impera nelle società sviluppate, i cui media col loro relativismo tornano al superuomo qualunque che cerca il padre nell’Ulisse di James Joyce, ma che perde se stesso, nel mondo contemporaneo. I modelli negativi valgono tanto quanto quelli positivi. Nei film di John Ford e Sergio Leone la distinzione tra buoni, brutti e cattivi (i brutti erano la sola alternativa al binomio etico fondamentale) non permetteva equivoci agli spettatori. Oggi nella narrazione collettiva i modelli negativi valgono come positivi tout court o vanno sotto la forma del “però vanno compresi”. La narrazione del thriller urbano ha un impatto psicoattivo, grazie alla sinestesia parola-immagine-musica, e così influenza l’opinione individuale confondendo valori e disvalori. Questo processo autodistruttivo ci schiaccia nella cultura woke (che mette i pannicelli alla Storia e al non politicamente corretto). D’altra parte subiamo l’alternativa della Legge della giungla iniettataci da Tg, film, storie Instagram, videogames e risse da discoteca con la pistola e il coltello. Almeno negli anni ’70 e ’80 le questioni tra ragazzi si risolvevano a pugni: oggi tutti diventano -per un giorno- non degli eroi ma dei Rambo.

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Paolo Della Sala

Paolo Della Sala è uno scrittore e musicista che trova ispirazione nella musica mentre lavora ai suoi articoli e racconti. Ha collaborato con Gianni Celati e ha ricevuto influenze da figure come Paolo Fabbri, Carlo e Natalia Ginzburg e Umberto Eco. Attualmente, scrive per diverse testate, tra cui Il Settimanale, Reputation Review e L’Opinione, concentrandosi su geopolitica e cultura. Ha esperienza anche con Il Secolo XIX, Rai Radio Tre e altre testate. Ha pubblicato "Alice Disambientata" con Gianni Celati e curato l'archivio di Gianni Rodari. Nel cinema e nella TV, ha lavorato come promoter per Portofino Film Commission e come aiuto regista in videomusica e pubblicità, oltre ad essere stato interprete-musicista per La Chambre des Dames.

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