Passata la festa – la Mostra del cinema di Venezia – e gabbato lo santo, ovvero gli spettatori, ai quali tocca vedere la discesa negli inferi del cinema italiano. Di questo si dovrebbe parlare, adesso che il sipario è calato sulla kermesse. Ha ragione Quentin Tarantino a dire che i film italiani degli ultimi anni sono una “cagata pazzesca” (cit.)? Il solo a dirlo chiaramente è stato il Nanni Moretti di “Caro Diario”, anche se poi citava soprattutto splatter e B-movies americani.
C’è chi vorrebbe più “controllo” dello Stato sul cinema, ma quella è un’idea da Unione Sovietica e altre dittature. Oggi, piuttosto, il problema è la diffusione in tutti i cicli educativi – dalle medie alle scuole di cinema – di un culto per il socialmente “corretto” che non vuole alternative, dato che si pone sotto il segno del bene assoluto, nello stile del Concilio di Trento. Così, con un’educazione sempre più nemica dell’intelligenza e del ragionamento autonomo, come si fa a scrivere dei soggetti di film decenti e non uguali a mille altri? Come si possono realizzare pellicole di successo che coniughino il piacere delle immagini con dei contenuti pluralisti e divergenti dal Pensiero unico? Se scorro i titoli e le trame, trovo la conferma che il pessimo cinema attuale è il risultato della sottomissione del messaggio artistico alla politicuccia delle “buone e ovvie idee”, che è la morte delle arti “liberali”.
Eppure il cinema americano va sempre forte, forse perché è privato e non vuole “educare il popolo”. Certo, le nuove Hollywood possono investire molto nella creazione di storie accattivanti, grazie a numeri enormi: 300 milioni di potenziali spettatori in madrepatria, oltre alla popolazione anglofona del mondo. Ma era così anche negli anni ’60, quando le produzioni italiane erano le seconde al mondo. Poi una legge ha di fatto bloccato le coproduzioni con soggetti “stranieri” e tutto è crollato. Non è stata soltanto colpa di Andreotti e Berlinguer, protezionisti in economia e alfieri di un cinema destinato a portare alle masse cinetelevisive contenuti ideologici, con la sola alternativa dei film pecorecci e dei cinepanettoni.
Ancora oggi la nostra produzione filmica e seriale è sostenuta dallo Stato come ai tempi della fondazione di Cinecittà, a parte il mercato dei blockbuster e a parte i pochi autori competitivi all’estero come Carlo Verdone e Sorrentino. Quando il cinema sovvenzionato propaga l’idea di una contestazione generale sessantottina che oggi non si vede, ciò forse avviene proprio a causa di sceneggiature che parlano di redenzione giovanile, oppure dell’esatto contrario, con famiglie sfasciate e giovani criminali. Il risultato è che nessuno vede questo tipo di film.
Possibile che nessuno dica ai cineasti che non si deve mai dire ai giovani quello che devono fare? Infatti tutti vedono serie e film di produzione internazionale, mentre gli “aiuti” al “cinema giovane e di qualità” italiano hanno disastrato il cinema giovane e di qualità. A ciò si aggiunge l’impossibilità di trovare bravi autori di sceneggiature, come avviene anche per gli scrittori nel campo editoriale.
Ieri ho visto il film “Mud”, di Jeff Nichols (che non è figlio di Mike, regista de Il Laureato). A 34 anni ha realizzato un’opera che non ha sbavature, è perfetto, realistico, ricco di contenuti non educativi, e quindi educativi.
Oggi sono andato a rileggere la rubrica dei film “Scelti per voi” sul settimanale Il Venerdi di la Repubblica, e vi ho trovato – a parte cinque produzioni americane – due film italiani e uno francese. Ebbene, il film francese consigliato era “La verità secondo…”, con Isabelle Huppert che interpreta la sindacalista di una multinazionale del settore nucleare. La protagonista naturalmente scopre un “complotto” e via morendo di noia. Il primo film italiano suggerito è “Il punto di rugiada” di Marco Risi, ambientato in una Rsa dove due ragazzi, condannati a un anno di “lavoro sociale”, venuti a contatto con gli ospiti si convertono al “bene”. Esempio di un film “irrealista” (non tutti i ragazzi fanno lavoro sociale nelle Rsa), ben diverso dal Mud di Nichols, che propone invece un cinema realista, solido, credibile anche quando scruta nella vita di famiglie che vivono illegalmente su barconi alla fonda nel fiume Mississippi.
“Il Sorpasso” di Dino Risi, padre di Marco, era di un’altra stoffa: quel film del 1962 incrocia fatalmente la vita di un quarantenne smargiasso, fancazzista e giovanilista con quella di un universitario bene educato e sociopatico. È ancora moderno, godibile e con un messaggio specifico che non vuole “educare” ma “solo” essere uno specchio della realtà, una qualità che si coglie ancora oggi. Meglio di esaltare i “poveri ma belli” è mostrarli simili nei pregi e nei difetti ai ricchi, belli ed educati, com’è nel caso del bellissimo e crudo “Brutti, sporchi e cattivi” di Ettore Scola. “Il punto di rugiada” nella trama è appetibile come il predicozzo di un prete che assopisce una classe nell’ora di religione, pur trattando di Dio (e scusate se è poco).
Il secondo film italiano consigliato da Il Venerdi era “In un posto Bellissimo” di Giorgia Cecere, la cui trama è: 1) Provincia piemontese; 2) Lucia, una madre e moglie annoiata, cerca una fuga dall’ovvio quotidiano, trovandola nell’amicizia con l’immigrato Ahmed. Per carità, la noia è un tema “realistico” così come il confronto con l’Altro, ma vuoi mettere “Il Laureato” o i film di Antonioni, o il confronto tra gringos e l’esercito messicano ne “Il Mucchio selvaggio”, o la noia nei romanzi di Moravia, o “Baciami, stupido” con Kim Novak, con l’accostamento da commedia degli errori tra una massaia e una puttana?
Già nel 2007 Tarantino affermava: «Le pellicole italiane che ho visto negli ultimi tre anni sembrano tutte uguali. Non fanno che parlare di: ragazzo che cresce, ragazza che cresce, coppia in crisi, genitori, vacanze per minorati mentali. Che cosa è successo? Ho amato così tanto il cinema italiano degli Anni ’60 e ’70 e alcuni film degli Anni ’80, e ora sento che è tutto finito. Una vera tragedia».
La colpa, ripeto, è nella standardizzazione di un prodotto culturale, tramite la Rai e i finanziamenti statali, senza dimenticare i fondi per le Film commission regionali, nate in Italia negli anni ’90, quarant’anni dopo quelle americane. È per questo che le trame hanno sempre gli stessi frame e la stessa sceneggiatura, come le serie delle mille Marilyn Monroe di Andy Warhol o come la catena di montaggio della Ford, inaugurata nel 1913. Perché divergere creativamente, se i finanziamenti si ottengono più facilmente con un prodotto standard e raccatta capitali, anche quando parla di rivoluzione cubana? Quello proposto in Italia – ed anche in Europa – è un cinema autoreferenziale e purgativo, dato che vorrebbe ripulire la massa dai suoi vizi. Ovvio che poi le stesse masse lo evitino accuratamente, visto che sia la bella sia la sporca società godono solo quando possono crogiolarsi nei propri vizi e difetti.
Non possiamo neanche dire che è tutta colpa della digitalizzazione della vita quotidiana. Spero in una cultura che ci liberi dalla controproducente pletora di messaggi virtuosi e politicamente corretti – così come dai messaggi schifosi e politicamente scorretti -, lasciando libertà agli autori e ai registi di creare e girare le storie migliori. Ma sarà mai così?
Ipotizzo una politica futura non più divisa tra destra e sinistra, o tra i pochi liberali e i troppi illiberali. Profetizzo due partiti: il primo sarebbe il PD, ovvero il Partito Digitale, che vorrebbe affidare la presidenza della Repubblica Mondiale (RM) alla rete di Intelligenza Artificiale… “L’unica onesta e in grado di non sbagliare mai!”, come reciterebbe lo slogan del PD futuro.
Il secondo partito mondiale sarebbe il PA, ovvero il Partito Analogico, che proporrebbe l’uscita definitiva dall’online e il ritorno a una Bohéme romantica. Forse quest’idea mi è aggallata perché qualcun altro ci ha già pensato per un film o una serie. Forse tra qualche anno si arriverà davvero a un’opzione simile.
Comunque vada il nostro cinema rischia di diventare sempre più invisibile e banale: si allontana sempre più dalla realtà raccontata e dal mercato cinetelevisivo, perché preferisce descriverla con la microsfera della bassa politica e della scarsa creatività.