New York sembrerebbe pronta per un sindaco millenial

Zohran Kwame Mamdani ha 33 anni, viene dal Queens, parla di affitti, autobus gratis e supermercati pubblici, e sta convincendo sempre più newyorkesi che un’altra città è possibile

Zohran Kwame Mamdani è, incredibilmente, in vantaggio su Andrew Cuomo – inizialmente grande favorito – alle primarie del Partito Democratico per la scelta del prossimo candidato sindaco di New York. È una grossa notizia, anche perché Mamdani, tra tutti i candidati, ha percorso probabilmente la strada più lunga e difficile per arrivare fin qui. Nato a Kampala, in Uganda, e cresciuto tra il Sudafrica e il Queens, Mamdani è figlio di intellettuali impegnati politicamente e culturalmente su scala globale: la regista Leone d’Oro a Venezia Mira Nair e il politologo Mahmood Mamdani.

A cinque anni si trasferisce dall’Uganda a Citta del Capo, in Sudafrica, e solo due anni dopo a New York. È spostato con l’artista siriana Rama Duwaji e vive ad Astoria. Oggi è uno dei nomi più importanti della sinistra newyorkese: parla di affitti bloccati, trasporti gratuiti, salario minimo a 30 dollari; qualcuno urlerebbe all’estremismo, per Trump è un «comunista lunatico». Zohran – così lo chiamano i suoi elettori e così recitano i manifesti elettorali – va avanti e non si guarda indietro.

Nel 2020 è stato eletto all’Assemblea statale di New York, rappresentando Astoria, nel Queens, e venendo riconfermato per due volte, nel 2022 e nel 2024. Allora si parlava poco di lui fuori dai circuiti della sinistra progressista, oggi è in testa nei sondaggi per la corsa a sindaco, ma resta un candidato anomalo: musulmano sciita, naturalizzato americano solo sette anni fa, ha una storia che passa per il rap e l’attivismo universitario. Ma in una città in cui il 60 per cento della popolazione è nata fuori da New York, la sua origine diventa quasi un’identità riconoscibile. Abilissimo a sfruttare i social (specialmente TikTok), la sua campagna si è concentrata soprattutto sul far votare chi non ha mai votato alle primarie di New York.

L’altro tema dominante del programma è il costo della vita. «È inutile», dice Mamdani, «dire che questa è la più grande città del mondo se non puoi permetterti di viverci, e devi andartene a Jersey City». Il candidato sindaco insiste sull’intervento pubblico come unica risposta praticabile: supermercati municipali, asili sovvenzionati, tetto agli affitti, e un sistema di trasporto gratuito per tutti. Le coperture? Una tassazione progressiva più severa su grandi aziende e capitali.

Alle campagne social si è unita anche una grossa mobilitazione offline, soprattutto ad opera dei suoi sostenitori: i volontari hanno portato avanti una campagna porta a porta concentrata nei quartieri a prevalenza musulmana. Si stima che a New York ne vivano oltre un milione, di cui 350mila iscritti alle liste elettorali, ma solo il 12% di questi ha votato alle scorse elezioni. Non è stato semplice collaborare con la comunità musulmana, come hanno raccontato alcuni attivisti: Mamdani è a favore della legalizzazione della marijuana – che a New York è legale ma presenta grosse criticità – e sostiene i diritti della comunità LGBTQ+, oltre ad essere comunque favorevole all’esistenza di Israele (ma senza risparmiare enormi critiche sulla situazione a Gaza), tutti temi poco popolari in una comunità conservatrice come questa.

In passato, Mamdani ha anche criticato duramente la polizia di New York chiedendone il taglio dei fondi e ha parlato di “globalizzare l’intifada”: sostiene apertamente il boicottaggio dei prodotti israeliani, ha parlato di genocidio riferendosi alla situazione a Gaza e si è detto favorevole all’arresto di Benjamin Netanyahu, sul quale pende un mandato d’arresto della Corte penale internazionale. Alcune tra queste e altre affermazioni del passato — canzoni rap incluse — sono state usate per accusarlo di estremismo. Ma, finora, le critiche non hanno scalfito il suo seguito elettorale. Anche perché il suo elettorato non sembra interessato alla moderazione dei termini, cosa che comunque Mamdani ha cercato di fare durante la sua campagna elettorale, ritrattando ad esempio le dichiarazioni sulla polizia (ha detto che lascerebbe inalterati i fondi) e concentrandosi, invece, sui problemi della vita a New York.

Diplomato alla Bronx High School of Science, Mamdani si è poi laureato in Studi Africani al Bowdoin College nel Maine. Lì ha co-fondato un’associazione universitaria pro-palestinese. Tornato a New York, ha lavorato per poco tempo in un’organizzazione no-profit contro i pignoramenti immobiliari, un lavoro che lui stesso ha indicato come decisivo per la scelta di candidarsi: «Le banche — ha detto — mettono i profitti davanti alle persone».

Nel suo distretto del Queens, ad Astoria, Mamdani è conosciuto anche per la vicinanza a figure simbolo della sinistra americana come Bernie Sanders e Alexandria Ocasio-Cortez, che lo hanno sostenuto fin dai primi passi. Ma rispetto a loro, Mamdani ha costruito una narrazione meno centrata sull’immagine e più sul programma: meno slogan, più bilanci. La sua popolarità sui social è sfruttata soprattutto per spiegare le proposte, più che coltivare una fanbase.

E adesso si guarda a novembre: Mamdani diventerebbe il primo sindaco di New York di origine asiatica e il primo millennial a ricoprire l’incarico. Ma più che l’identità, a determinare la sua corsa sono i contenuti: Mamdani è riuscito a rimettere l’economia quotidiana al centro del dibattito.

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