Il problema della carenza di case a New York passa anche dall’acqua

Un nuovo rapporto stima che decine di migliaia di abitazioni potrebbero andare perse nei prossimi anni per colpa delle inondazioni, rendendo ancora più difficile affrontare la scarsità di alloggi

Un nuovo rapporto pubblicato dalla Regional Plan Association, una storica organizzazione no-profit che si occupa di pianificazione urbana nell’area metropolitana di New York, stima che oltre 80.000 abitazioni potrebbero andare perdute nei prossimi quindici anni a causa dell’innalzamento del livello del mare e dell’aumento delle inondazioni. Le aree più a rischio sono Staten Island, il sud-est del Queens e i sobborghi orientali, in particolare quelli lungo la costa atlantica.

Il dato si inserisce in un contesto già difficile per quanto riguarda l’offerta abitativa: a New York e dintorni non si costruisce abbastanza da decenni, e questo ha contribuito all’aumento dei prezzi, degli affitti, e della pressione su interi quartieri. A ciò si aggiunge ora una trasformazione del territorio che rischia di sottrarre progressivamente porzioni significative di suolo edificabile.

Secondo il rapporto, il numero di case che servirebbero già oggi per allentare il sovraffollamento e ridurre la dipendenza dai rifugi temporanei è di circa 362.000. Ma nel giro di 15 anni, tenendo conto della crescita della popolazione, dei danni da inondazione e del degrado edilizio, il numero di abitazioni mancanti potrebbe arrivare a 1,2 milioni.

«Bisognerà costruire più case solo per rimpiazzare quelle che si perderanno nel proprio comune», ha detto Moses Gates, vicepresidente dell’associazione e coautore del rapporto. Aree come i Rockaways, Canarsie, Islip e Babylon sono tra quelle considerate più esposte, insieme ad alcuni comuni affacciati sul Long Island Sound.

A Long Island è previsto che si concentri più della metà delle case potenzialmente perdute. Anche parti del Bronx, del Queens e di Brooklyn potrebbero diventare via via più difficili da difendere o da mantenere abitabili. In alcuni casi, come già avvenuto a Staten Island dopo la tempesta Sandy del 2012, le autorità potrebbero optare per l’acquisto delle abitazioni danneggiate per riportare i terreni a uno stato naturale.

Negli ultimi anni sono stati avviati progetti di protezione, tra cui barriere artificiali, dune rinforzate e sistemi di drenaggio ispirati alla natura, come i bluebelts. Ma secondo il rapporto, gli interventi restano frammentari, e un piano complessivo per mettere in sicurezza l’intera città non è ancora stato approvato e richiederà comunque almeno vent’anni per essere completato.

C’è anche un tema di adattamento, non solo di difesa. «Dobbiamo ripensare cosa intendiamo per abitazione», ha detto Max Besbris, professore di sociologia all’Università del Wisconsin-Madison. Più densità, più efficienza energetica, meno insistenza sul modello della casa indipendente con giardino.

Il rapporto propone che lo sviluppo edilizio venga orientato verso aree meno esposte al rischio idrogeologico e più vicine a nodi di trasporto pubblico e attività commerciali. Uno strumento utilizzato per capire dove si potrebbe effettivamente costruire di più è il National Zoning Atlas, che mappa i vincoli urbanistici locali. Oggi, secondo i calcoli, si potrebbero costruire fino a 580.000 nuove abitazioni senza cambiare le leggi, anche se in molti casi mancano comunque fondi o autorizzazioni.

Alcune modifiche ai regolamenti sono già state introdotte negli ultimi anni, ma con risultati limitati. Il piano del sindaco Eric Adams, approvato lo scorso dicembre e noto come “City of Yes”, prevede la costruzione di circa 80.000 nuove abitazioni. Ma, come ha rilevato lo stesso rapporto, anche se venisse realizzato interamente, coprirebbe solo l’11 per cento del fabbisogno previsto.

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