Tutte le strade portano al Blues: Davide Pannozzo, chitarrista italiano a New York

"Suonare a New York questa musica è un sogno che si è avverato. Qui è molto facile avvicinarsi ad artisti e session player molto importanti, che hanno fatto la storia della musica, con i quali si riesce a entrare in contatto abbastanza agevolmente, perché è una società ancora molto meritocratica"

Con cinque album da solista all’attivo e un sodalizio ormai consolidato con Steve Jordan, già produttore di John Mayer e Eric Clapton, nonché attuale batterista dei Rolling Stones, Davide Pannozzo è sicuramente chitarrista noto e apprezzato nell’ambiente musicale di New York. In città dal 2016, Davide ci ha raccontato il suo arrivo nella Grande Mela, le session e i live per Room For Joy, il suo ultimo album e le lezioni in GuitarLab, la sua academy online per chitarristi blues. Tra idoli incontrati e conosciuti per strada e demo che viaggiano oltreoceano, la sua storia insegna a credere davvero nel proprio sogno musicale in America.

Partiamo dal principio. Come mai l’America? In Italia lavoravi anche con la Rai e avevi già incarichi importanti in ambito musicale. Come nasce l’idea di venire a New York?

Sostanzialmente sono venuto a New York perché sentivo che artisticamente l’italia cominciava a starmi un po’ stretta. Stavo anche vivendo un periodo della mia vita a cavallo con Londra e, a un certo punto, dopo aver pubblicato un disco per Universal Music in Italia, ho iniziato a cercare contatti in America. È stato sempre un mio sogno quello di vivere qui e suonare con musicisti americani. Per questo ho mandato il mio materiale a Steve Jordan, il quale, dopo circa sette giorni, mi ha chiamato e mi ha chiesto di avviare una collaborazione insieme.

Quindi tu hai mandato un po’ del tuo materiale a freddo, senza un contatto pregresso o l’intermediazione di qualcuno?

Sì, esatto. Mio fratello, che è un batterista, un giorno mi dice “ma perché non mandi le tue cose a Steve Jordan, che è sempre stato un nostro mito?”. Abbiamo cercato il contatto del management e abbiamo mandato via mail una richiesta per inviare il nostro materiale. Loro hanno accettato e abbiamo condiviso con loro il classico pacchetto demo. E poi il resto è storia.

Che vuol dire fare il musicista blues qui a New York che, nell’immaginario collettivo, è sicuramente una città che vive di sonorità jazz e blues?

Suonare a New York questa musica è un sogno che si è avverato. Qui è molto facile avvicinarsi ad artisti e session player molto importanti, che hanno fatto la storia della musica, con i quali si riesce a entrare in contatto abbastanza agevolmente, perché è una società ancora molto meritocratica. Questa città ti dà la possibilità anche di crescere, in Italia purtroppo non così scontato.

Come viene visto un musicista italiano nell’ambiente e quanti musicisti blues italiani lavorano a New York?

Quando sei italiano, a New York in particolare, ma in genere in America, ti porti comunque dietro un background artistico importante. Vieni ben visto dagli americani, mettiamola così. Non siamo in tanti, comunque, forse qualcuno in più in ambito jazz. Diciamo però che qui in città siamo tre, quattro.

Nei tuoi quasi otto anni in America qual è stato il momento più difficile da affrontare e come l’hai superato?  

Sicuramente il periodo della pandemia è stato molto duro. I club sono stati costretti a chiudere, a non fare spettacoli. Anche gli studi di registrazione erano chiusi e quindi tutta l’attività artistica ha subito un vero e proprio blocco come nel resto del mondo. 

Parlaci un po’ di Room For Joy, il tuo ultimo album, uscito all’inizio del 2024. Come è nato e come lo state portando in giro?

L’album nasce dalle recording session con il mio trio, una formazione sperimentale messa su qui a New York, senza basso, con tastiere/sinth, batteria e tre voci. La band è formata da Etienne Stadwijk, alle tastiere, e Clint de Ganon, alla batteria. In giro stiamo portando una scaletta principalmente di composizioni originali. In questa prima parte dell’anno abbiamo suonato nella East Coast, con date a Philadelphia, Woodstock, New York e dintorni, riscontrando, devo dire, un discreto successo.

Oltre al progetto personale, quali collaborazioni stai portando avanti?

I progetti sono sempre tanti e stimolanti. Al momento, ad esempio, sto collaborando con Oleta Adams, una cantante molto importante e conosciuta qui in America. Parliamo di un’artista più volte nominata ai Grammy per le categorie riservate agli album e alle voci R&B o Modern Gospel. Suonare per lei mi sta permettendo di raggiungere palchi e teatri molto grandi e prestigiosi.

Andando in tour, quali differenze noti tra New York e il resto dell’America?

Riassumerei tutto così: New York è molto europea nelle sue atmosfere e nel suo ambiente, perciò è naturale che io la senta molto più mia come posto e, insomma, come casa. 

Quali consigli ti sentiresti di dare a un giovane musicista e a chiunque abbia un sogno americano da inseguire qui?

Sicuramente credere nelle idee che ognuno ha. Cercare di tener duro, di continuare a essere sempre sul pezzo, consistenti nelle cose che si fanno. E non mollare mai, perché poi alla fine vince chi sa essere testardo e portare avanti una linea che sia coerente e anche riconoscibile per chi ascolta.

Qual è la cosa più incredibile che ti è capitata qui a New York? 

Sicuramente il fatto di conoscere artisti molto importanti per strada. Per esempio, un’altra mia collaborazione assidua è quella con Will Lee, il famoso bassista del David Letterman Show. E lui l’ho proprio conosciuto così, per strada, durante l’inaugurazione della Miles Davis Way, dedicata al famoso trombettista. E in quell’occasione c’erano proprio tutte le star del jazz e ho fatto parecchie conoscenze che poi si sono trasformate in collaborazioni.

Come funziona la tua routine musicale quotidiana qui a New York?

Essenzialmente è divisa tra una parte artistica e una parte didattica. Quindi, da un lato, cerco di scrivere il più possibile, ogni giorno, materiale originale, in modo da chiudere dei brani alla fine del mese. Questo mi permette di mantenere, per così dire, sempre attivo e fresco l’esercizio della composizione. E poi, dall’altro lato, c’è la didattica. Seguo studenti in tutto il mondo e, attraverso il mio supporto e la mia guida, cerco di dare loro la visione secondo me più giusta per fare questo mestiere o per avvicinarsi al genere blues e alla chitarra con la migliore prospettiva. 

E l’accademia è stata un po’ anche un’occasione di riavvicinamento all’italia, giusto?

Sì, perché, essendo una academy online, non ha confini e quindi molti dei miei studenti vengono proprio dall’Italia. In realtà, però abbiamo anche tanti studenti che ci seguono dal resto d’Europa e anche qui dall’America.

Come ti vedi tra cinque anni? Pensi molto al nostro Paese? Mi vedo sicuramente preso il più possibile dalle miei produzioni originali: continuerò a scrivere, a fare la mia musica e a portare in giro quello che è il risultato della mia vita qui negli Stati Uniti.  Dell’Italia mi mancano i rapporti personali con la famiglia, con alcuni amici, ma in questo momento non ho assolutamente intenzione di tornare. Penso di rimanere qui il più a lungo possibile.

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Marco Costante

Classe 1990, Marco G. Costante è autore, copywriter e ghostwriter tarantino. Storico per formazione accademica, marketer per deformazione professionale, è tra i fondatori de L’Olifante, collana di libri di approfondimento musicale, e scrive di musica, marketing e reputazione per i magazine SMMAG! e Reputation Review. Innamorato fin da bambino della cultura e degli sport a stelle e strisce, ha recentemente contribuito al saggio Against Stereotypes - The Real Reputation of Italian American di Davide Ippolito.

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