Roberto Caporuscio, proprietario della celebre pizzeria Kesté, è considerato uno dei pionieri che hanno portato l’arte autentica della pizza napoletana negli Stati Uniti. Nato a Pontinia, in provincia di Latina, ha iniziato la sua carriera in tutt’altro settore. Solo a 38 anni ha deciso di rivoluzionare la propria vita e imparare a fare la pizza. Da allora il suo percorso lo ha portato da Napoli a Pittsburgh, dal New Jersey a New York. Con oltre venticinque anni di esperienza e centinaia di allievi formati, oggi è un punto di riferimento per pizzaioli e appassionati, un ambasciatore della tradizione capace di unire tecnica, ricerca e spirito imprenditoriale.
Lo abbiamo intervistato per ilNewyorkese.
Da dove nasce la tua passione per la pizza e come hai deciso di cambiare vita a 38 anni?
Sono nato a Pontinia, una piccola città tra Sabaudia e Latina, in una terra che profuma di agricoltura e tradizione. Per molti anni la mia vita è stata legata al ritmo della campagna: coltivavo la terra, allevavo animali e producevo mozzarella. Era un lavoro dignitoso e impegnativo, ma dentro di me sentivo una spinta diversa, il desiderio di creare qualcosa che unisse manualità, cultura e creatività.
A 38 anni ho deciso che era il momento di cambiare davvero. La pizza, per me, rappresentava una sintesi perfetta: storia, tecnica e passione. Così sono andato a Napoli per imparare dai migliori. Ho studiato con maestri straordinari come Enzo Coccia, Starita e Don Gennaro, e ho frequentato la Scuola Verace di Pizza Napoletana. Poi ho sentito il bisogno di mettermi alla prova altrove: sono partito per Pittsburgh senza conoscere nessuno, con un solo obiettivo chiaro in mente — un giorno avrei aperto la mia pizzeria.
Da Pittsburgh a New York: come nasce Kesté e come ha cambiato la scena gastronomica della città?
A Pittsburgh ho iniziato in una piccola pizzeria e mi sono accorto subito di una cosa: negli Stati Uniti la vera pizza napoletana quasi non esisteva. I clienti erano curiosi, ma spesso delusi da imitazioni lontane dall’autenticità. Un giorno un assicuratore, desideroso di investire nella ristorazione, mi propose di aprire una pizzeria insieme. Così nacque Regina Margherita, una delle prime vere pizzerie napoletane d’America. In sette anni avevamo due locali e venimmo inseriti tra le otto migliori pizzerie del Paese.
Poi mi trasferii nel New Jersey e iniziai a collaborare con l’Associazione Verace Pizza Napoletana e con il mulino Caputo. Ho viaggiato in oltre 85 città, formato più di 300 studenti e capito che la pizza è un linguaggio universale. Nel 2009 aprii Kesté a New York. In dialetto napoletano significa “questo è”: un’affermazione chiara e diretta — questa è la vera pizza. In tre mesi New York Magazine ci nominò migliore pizzeria della città. Da lì è stato un crescendo: file lunghissime, clienti entusiasti e la consapevolezza di aver portato qualcosa di nuovo e autentico.
Vedere mia figlia Giorgia unirsi a me, apprendendo l’arte e poi gestendo insieme Don Antonio, è stato un orgoglio immenso: la tradizione che passa alla seconda generazione è il risultato più bello del nostro lavoro.
Durante la pandemia, Kesté è diventata un simbolo di solidarietà. Come avete affrontato quel periodo?
La pandemia è stata dura per tutti. Noi abbiamo deciso di reagire con ciò che sappiamo fare meglio: cucinare e condividere. In soli due mesi abbiamo preparato e donato oltre 4.500 pizze agli ospedali di New York, grazie anche ai fornitori italiani che ci hanno sostenuto con farina, pomodoro e mozzarella. Questo impegno ci ha permesso di non licenziare nessuno dei nostri 42 dipendenti e di rafforzare il nostro spirito di squadra.
Da questa esperienza è nata poi l’idea di portare la nostra pizza in tutto il Paese con una linea di pizze surgelate artigianali, un modo per restare vicini alle persone anche quando non potevano venire da noi.
Qual è stata la sfida più grande nel portare la pizza napoletana in America?
La sfida più difficile è stata resistere alla tentazione di adattare la pizza ai gusti americani. Negli Stati Uniti la richiesta è “più formaggio, più condimenti, più tutto”. Ma la pizza napoletana non funziona così: è equilibrio, misura, identità. Ho scelto di importare dall’Italia l’85% degli ingredienti: farina Caputo, mozzarella di bufala, pomodoro San Marzano, formaggi artigianali. Persino i materiali del locale vengono da lì: mattonelle napoletane, pietra leccese. Non si tratta solo di cibo, ma di cultura e memoria. Ogni dettaglio racconta Napoli e la sua tradizione.
Il pubblico americano come ha reagito a questa autenticità?
All’inizio con curiosità, poi con entusiasmo. Oggi circa l’80% dei nostri clienti è americano. È la conferma più bella: significa che siamo riusciti a far comprendere che la pizza napoletana non è “meno ricca”, ma semplicemente diversa — più autentica, più equilibrata, più vera.
Molti clienti mi dicono: “Mi hai rovinato, non riesco più a mangiare un’altra pizza.” È il complimento più grande: vuol dire che la pizza diventa un’esperienza, non solo un piatto. Un modo per raccontare Napoli, le mie radici, la mia vita.
Tra le tante pizze del tuo menù, ce n’è una a cui sei particolarmente legato?
La Padrino, nata a Pittsburgh: caciocavallo ragusano, spianata piccante e olive. È un ponte tra passato e presente, tra memoria e territorio. Poi c’è la pizza dedicata a Dario Cecchini, un omaggio alla Toscana e alla cultura della carne. E l’ultima, la Siciliana: una ricetta che racconta la mia famiglia e la mia terra, con crema di pistacchio, gamberi con pecorino siciliano piccante, zafferano e olio al basilico e limone. Ogni pizza è una storia, un’emozione, un viaggio.
Guardando al futuro, cosa rappresenta oggi per te la pizza napoletana?
La pizza napoletana è una responsabilità culturale. Formare nuovi pizzaioli e tramandare la tecnica significa proteggere un patrimonio vivo. Non è nostalgia: è identità. Finché ci sarà qualcuno disposto a imparare e rispettare la qualità, la pizza napoletana continuerà a vivere ovunque, anche nel cuore di New York. Per me questo è il vero successo: vedere la propria tradizione rispettata, amata e compresa a migliaia di chilometri da casa.




