Matteo Zuretti: un italiano nel cuore pulsante della NBA

Matteo Zuretti lavora nella NBPA da quasi 10 anni e da un anno ha il ruolo di Chief Player Experience Officer. Ci ha raccontato come ha fatto ad emergere in uno dei contesti professionali più competitivi al mondo. 

Quali strade professionali l’hanno portata in America?

Sicuramente una grande passione per il basket. Ho fatto un anno di liceo negli Stati Uniti, molto importante. Ho smesso di giocare presto e sono stato coinvolto da Germano D’Arcangeli nel progetto di rilancio della Stella Azzurra Roma: sono stato con lui sei anni e questo è stato il primo step importante. 

Reclutammo Andrea Bargnani, che passò da noi un anno: vidi quello che c’era intorno allo sviluppo di un prospetto del massimo livello così decisi di concentrarmi sullo sviluppo degli atleti. Ho convinto uno dei padri della professione di agente in Europa, Maurizio Balducci, a prendermi sotto la sua ala: sono andato letteralmente a bottega da lui. 

Sono partito nella video room dell’agenzia, ho fatto scouting, ho iniziato a reclutare i giocatori. Infine ho iniziato a negoziare contratti per i giocatori che avevo reclutato: è stata una culla fenomenale sotto l’aspetto dell’agilità culturale.

Quando nel 2015 ho cercato un’altra opportunità professionale, in America, una serie di sliding doors mi ha portato a fare un colloquio per una posizione nuova nel mondo NBA: stava nascendo infatti il Dipartimento Internazionale dell’Associazione Giocatori. Il 25% dei giocatori NBA erano nati fuori dagli USA e apriva un Dipartimento specifico dedicato a loro.

Avendo lavorato per anni in un contesto multiculturale ho avuto un grande vantaggio competitivo. In America ho potuto mettere in pratica le skills apprese trovando una carta bianca sulla quale poter disegnare la mia visione. La parte che mi è sempre piaciuta di più del mio lavoro è fare design di soluzioni che possano supportare lo sviluppo dei giocatori.

Da un anno mi hanno dato un ruolo ancora più grande, quello di applicare la mia strategia a tutti i giocatori della Lega: sono Chief Player Experience Officer della NBPA. 

La mia vision parte dal presupposto che il concetto di “giocatori” non esiste: c’è un ventaglio ampio di esigenze diverse a seconda dell’età, della provenienza e delle situazioni, fatte salve le grandi esigenze comuni, chiaramente legate al gioco, alla salute, ecc. 

Lei non è stato solo bravo a salire sui treni giusti, ma si è impegnato a creare le condizioni giuste perché passassero.

La chiave sono le persone che incontri sul tuo cammino e quanto sei in grado di stimolarle a farti trasmettere il meglio di loro. 

In America ho affrontato delle situazioni nuove: è stato decisivo trovare il punto di contatto tra la mia agilità, tipicamente italiana, che qui apprezzano, e la struttura e i processi tipicamente americani.

Ho avuto la grande fortuna di far parte di tre negoziazioni molto importanti, la prima nel 2015, appena arrivato. Michele Roberts, che mi ha assunto, mi ha portato nel gruppo di lavoro per l’accordo collettivo: si tratta di un libro di 750 pagine che determina il rapporto tra i 30 proprietari, rappresentati dalla Lega, e i 450 giocatori, rappresentati da noi. Un’esperienza incredibile, perché  ti trovi dentro un meccanismo che rende possibile un business da 10 miliardi di dollari l’anno.

Un’altra contrattazione l’abbiamo chiusa nel 2023. In mezzo c’è stata l’esperienza della “Bolla”, col Covid: è stato un altro momento incredibile in cui abbiamo dovuto connettere gli interessi del business agli interessi degli uomini e delle loro famiglie, e anche lì c’è stata una vera e propria negoziazione. Alla fine abbiamo ottenuto che potessero veicolare il messaggio del “Black Lives Matter”.

Quante persone lavorano all’interno del sindacato di giocatori dell’NBA e qual è il tuo concetto di leadership?

Nella NBPA siamo circa 80 persone. Il mio team è di 15 persone e il mio leadership style è molto influenzato da due condizioni fondamentali. Lavoro per le 450 persone più brave al mondo a giocare a basket, e vivo a New York.

I giocatori ti costringono, un po’ come New York, a dare il meglio di te, altrimenti non hai una chance:  poche persone hanno accesso a loro e quando hai l’onore di essere in questa ristretta cerchia di persone devi dare valore.

Devi essere all’altezza del meglio, perché i giocatori sono esposti al meglio tutti i giorni: you have to level up.

E la stessa cosa la fa New York, perché la gente viene qui per giocarsi le proprie carte, quindi c’è una tensione pazzesca. Forse New York non è per sempre, ma fino a che ci stai vai. È un tapis roulant a cui hanno smontato il regolatore della velocità e che va velocissimo: o corri o scendi.

Il mio leadership style parte da questo presupposto. O è eccellente o non lo facciamo. Se non lo facciamo stiamo rinunciando alla possibilità di aggiungere valore, e c’è la fila dietro di gente che vuole il nostro lavoro. Quindi facciamolo eccellente.

Che rapporto ha con New York?

Il mio rapporto con New York è viscerale. Lo era già prima che mi trasferissi qui, ma una volta arrivato ho deciso di immergermi completamente nella realtà della città. Non mi considero un expat, come molti altri italiani, che vivono qui legati a un’azienda o a una comunità italiana. Io mi sono inserito nella vita americana, accogliendola in tutte le sue sfaccettature.

C’è una ricchezza straordinaria nella diversità di New York, che è un valore fondamentale. Penso, per esempio, al contesto culturale che mi circonda: l’80% dei nostri giocatori è afroamericano, e ho tanti colleghi provenienti da ambienti diversi. Nei primi anni ho scelto di ignorare la “New York italiana” per integrarmi completamente: l’idea era di fondere la mia identità con quella della città.

Poi, per motivi familiari, mi sono riavvicinato alla nostra comunità, creando bellissimi rapporti con molte persone: qui le relazioni nascono e si sviluppano rapidamente. Solo ora sto riscoprendo una parte di me stesso, richiamando la mia italianità.

A New York ha riscoperto anche lati diversi della sua personalità?

Sì, qui ho imparato a tenere viva una parte importante di me, pur adattandomi a un ritmo che non lascia spazio alla nostalgia. A New York non c’è tempo per piangersi addosso. Noi italiani, spesso, abbiamo la tendenza a lamentarci, anche se abbiamo risorse, uno stile di vita unico e una capacità di costruire relazioni profonde che nessun altro al mondo possiede.

Noi andiamo in profondità nei rapporti umani, ed è una cosa che qui manca. A New York, tutto è molto “transazionale”: una relazione si basa su ciò che puoi fare per l’altro e viceversa. Ma questa dinamica non è vista negativamente; è culturalmente accettata. 

Ho imparato a non giudicare gli americani per questo. Li ho accettati per ciò che sono, facendo uno sforzo per adeguarmi. Con alcuni di loro, però, sono riuscito a creare rapporti più profondi, più simili a quelli che costruiremmo noi.

Qual è il suo posto preferito a New York?

Il mio posto preferito è Washington Square Park. Non c’è nulla di più bello che sedersi su una panchina o passeggiare lì in una giornata d’autunno o di primavera. È un luogo che rappresenta la vera essenza di New York: una moltitudine di persone di ogni estrazione sociale, razza e interesse che si esprimono in totale libertà. 

Può New York diventare davvero casa, o resterà sempre un luogo di transizione?

Credo che sarà sempre casa per una parte di me, mentre un’altra parte troverà una casa altrove. New York ti appartiene, ma mai completamente. È una città che accoglie, ma non trattiene.

Immagine di Guglielmo Timpano

Guglielmo Timpano

Laureato in Scienze Politiche. Giornalista freelance. Conduttore radiofonico. Presentatore televisivo. Appassionato di sport, storia e animali: per combinare tutti questi interessi, il sogno sarebbe seguire un torneo di calcio tra dinosauri.

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