In occasione della tappa newyorkese del suo tour mondiale “RED SOX” dello scorso 9 dicembre, Luca Ravenna ha raccontato al Newyorkese il percorso che lo ha portato a esibirsi negli Stati Uniti, un traguardo che lo consacra come il primo stand-up comedian italiano a calcare i palchi americani. Nato e cresciuto a Milano, Ravenna ha sempre dimostrato una passione innata per la scrittura e la comicità. Trasferitosi a Roma per studiare sceneggiatura al Centro Sperimentale di Cinematografia, ha iniziato la sua carriera collaborando con il gruppo comico The Pills e successivamente lavorando come autore televisivo per programmi come “Zio Gianni” e “Quelli che il calcio”.
La sua vera svolta arriva con il passaggio alla stand-up comedy, dove porta in scena testi originali che raccontano il suo mondo con ironia tagliente e uno stile unico. Dopo anni di successi in Italia, con spettacoli sold-out e progetti come il podcast “Cachemire”, Ravenna ha deciso di portare la sua comicità oltre confine. A New York, patria della stand-up, ha scelto di esibirsi in italiano, con la speranza di un giorno tradurre i suoi spettacoli per il pubblico anglofono.
Il Newyorkese - Numero 4: L'arte di ispirare il mondo
Scopri il quarto numero di "Il Newyorkese", in questo numero: Cristiana Dell'Anna, Gabriele Salvatores, Giorgio Mulè, Chiara Mastroianni, Roberta Marini De Plano, Olga Uebani, Lello Esposito, Federico Vezzaro e molto altro.
Acquista su AmazonRED SOX arriva all’ultima data del suo tour mondiale. Hai spesso detto che chiudere con la data di New York, a Le Poisson Rouge, rappresenta il completamento del ciclo vitale di questo spettacolo, scritto e pensato proprio qui negli Stati Uniti. Raccontaci di più su questo e su cosa rappresenta per te questa città.
Intanto grazie per averlo definito “tour mondiale”! Ne parlavamo prima, però effettivamente c’è gente che va a Lugano una volta e lo chiama tour europeo; quindi, facciamo finta che sia corretto… Sono super contento di aver fatto l’ultima data qui. È stato emozionante pensare che solo un anno e mezzo fa ero a New York con mio fratello: l’idea era di scrivere qualcosa proprio qui. Lo spettacolo racconta anche di quella esperienza, perché il sogno era fare due pezzi che spaccassero in inglese e svoltare. Ovviamente poi nello spettacolo racconto com’è andata davvero…
New York è la città più affascinante del mondo, ma il mio spettacolo è profondamente italiano: direi al 98%. Quel 2% che non lo è lo devo alla New York di luglio 2023. Spero che questo sia arrivato anche al pubblico di dicembre 2024.
Ho avuto il piacere di vedere RED SOX a Roma nel 2023 e devo dire che, oltre a un forte richiamo all’America, c’è anche molto delle città italiane, in particolare un po’ di Bari…
C’è un botto di Bari! Lo spettacolo inizia proprio con un episodio successo lì. Per preparare il tour ho fatto circa 25 date di prova, e Bari è stata una delle prime due. In qualche modo, tutto parte sempre da Bari…
Sono due anni che porti in giro questo spettacolo. Hai cambiato qualcosa lungo il percorso? L’esperienza internazionale ti ha arricchito in qualche modo?
Sì, l’ho sempre aggiornato. Da una parte lo fai per migliorarlo, ovviamente, ma anche perché con il passare dei mesi ti rendi conto che alcune cose non funzionano più. È sempre un lavoro in continuo divenire, finché non lo registri e diventa definitivo. Noi lo abbiamo registrato alla fine del tour italiano, ad aprile. Le date europee e questa a New York sono un po’ a sé. Ma sì, continuo a modificare e a tagliare qualcosa qua e là.
Ci sono differenze nel modo in cui affronti il palco in Italia rispetto a quando sei all’estero e ti rivolgi agli italiani?
Sì, per forza. All’estero il pubblico arriva da tutta Italia, quindi la serata diventa una specie di festa tricolore. A Londra, Bruxelles o New York trovi spettatori da ogni regione, e i riferimenti specifici a una singola città esaltano qualcuno, ma non tutti. In Italia, invece, la città in cui ti esibisci determina il mood della serata e i riferimenti culturali.
Le serate migliori, però, spesso sono quelle all’estero. Si crea una dinamica particolare: sei tu e il pubblico “contro” la città in cui ti trovi. È un momento di sfogo, in cui prendi in giro gli stereotipi sugli italiani, che spesso sono verissimi! Poi rispondi scherzando sugli aspetti della città ospitante.
Ovviamente, essendo New York la mecca della stand-up, qui è normale che il pubblico sia abituato a spettacoli in inglese di altissimo livello. Ma io ho fatto del mio meglio in italiano.
Il Newyorkese parla agli italiani negli Stati Uniti e agli italoamericani. Da stand-up comedian, attore e autore, qual è la tua opinione su questa comunità, al di là dei soliti luoghi comuni?
C’è una differenza enorme tra gli italiani della mia generazione, quelli che si trasferiscono ora in America, e gli italoamericani di seconda o terza generazione. L’America è un paese in cui, se hai delle differenze, devi evidenziarle per creare identità e comunità. È un luogo che, paradossalmente, può lasciarti molto solo.
Gli italiani che arrivano oggi sono di altissimo livello: studi, lavori, creatività, una sana aggressività. Se molli “il paese più bello del mondo” per venire qui, è perché hai un’idea di crescita molto chiara.
Gli italoamericani, invece, li conosciamo attraverso film e libri, e quando li incontri qui sono esattamente come descritti: fanno ridere per quanto sono fedeli agli stereotipi. Ma questo vale anche per le altre comunità di primo insediamento.
Sei tra i comici di “seconda generazione” che hanno dato un grande contributo alla stand-up in Italia. Cosa manca ancora per farla crescere?
Bella domanda. All’inizio eravamo una nicchia in espansione, come il rap negli anni ’80 e ’90. Adesso il pubblico è cresciuto: tanti ci vengono a vedere a teatro e nei club, e ci sono un sacco di serate in tutta Italia. Quella fase è fatta.
Quello che manca è un anello di congiunzione. In America è scontato: la stand-up è sia un punto di partenza che di arrivo. In Italia è ancora difficile che diventi una base per altri ambiti, come la scrittura comica per la TV. Serve sviluppare una controcultura, come il rap, che sfoci poi nei media tradizionali. È un passo lungo, ma possibile.
Domanda spicy: cosa ne pensi del “politicamente corretto”? Si può ancora scherzare su tutto?
Quando inizi sei più “punk”: ti rivolgi a un pubblico ristretto e fidelizzato, e puoi dire tutto. Crescendo, però, impari a rendere ciò che vuoi dire più armonico, per aprirti a un pubblico più ampio. Questo non significa ammorbidire i contenuti, ma esprimerli meglio.
Si può scherzare su tutto, dipende dal contesto. In un piccolo club hai massima libertà; davanti a 2000 persone, se sono lì per te, puoi dire quello che vuoi. Ma in TV, con 6 milioni di spettatori, è un’altra storia. Devi capire il contesto e adattarti: non puoi attraversare l’Atlantico col pedalò.
Luca Ravenna sta vivendo il suo sogno americano?
È proprio di questo che parlo nello spettacolo! Prendo in giro il mio “sogno americano”… Mi piacerebbe tradurre il mio lavoro in inglese, il campionato di Champions League della stand-up. Diciamo che mi sto mettendo a letto. Vedremo se e quando inizierò a sognare davvero!