L’Anna(lisa Menin) che verrà: «Resterò sempre la ragazza di New York»

L’Anna che verrà è il terzo romanzo di Annalisa Menin, che si racconta a noi in questa intervista, dal dolore per la perdita del marito alla scoperta di una nuova sé, partendo da New York.

Imprenditrice, autrice, expat di lungo corso. Annalisa Menin ha vissuto per vent’anni negli Stati Uniti, dove ha affrontato un lutto prematuro e ha costruito una nuova vita. Il suo percorso personale è anche la base emotiva dei suoi libri, anche l’ultimo della trilogia di pubblicazioni, L’Anna che verrà, uscito il 21 maggio. Un romanzo che parla di rinascita, viaggi interiori e scelte complesse, dando voce a una protagonista femminile potente e vulnerabile, Anna Venier, l’alter ego letterario dell’autrice.

Quando è nato il desiderio di scrivere?

«La valvola di scatto è stata la perdita di mio marito. L’ho perso a trent’anni, lui ne aveva trentatré, si era ammalato di cancro. Avevo bisogno di tenere la mente occupata e la scrittura è stata un’ancora importante. Ho iniziato nel 2014 con un blog, che in quel periodo erano gettonatissimi, soprattutto negli Stati Uniti. In Italia era ancora qualcosa di relativamente nuovo: c’eravamo io, Laura di “Vivere New York”, Chiara Lady Boss, e poco dopo è arrivata Marta di “Pics & Tips”. Oggi c’è una nuova generazione di giovani voci che raccontano New York da punti di vista diversi, molto interessanti.

Ma all’inizio per me era una questione di sopravvivenza emotiva: uno, per impegnare la mente; due, perché volevo che Marco e la nostra storia non venissero dimenticati. All’epoca ero quasi ossessionata da quest’idea. Pensavo che un libro fosse un modo per fissare la memoria nel tempo, perché un libro non passa mai di moda: si può leggere oggi come fra dieci anni, e continua a parlarne».

La protagonista dei tuoi libri si chiama Anna Venier. Cosa rappresenta per te questo alter ego?

«Avere un personaggio fittizio mi permette di spingermi un po’ oltre, di esplorare mondi paralleli e prendere decisioni che forse io prenderei in modo diverso, e anche, in parte, di proteggermi. Posso raccontare qualcosa di profondamente mio, ma con un po’ di distanza. “Anna” è un nome che sa di semplicità, “Venier” è un cognome che richiama le mie origini venete. E poi c’è anche la citazione: Anna e Marco, come la canzone di Dalla».

Nel nuovo romanzo, L’Anna che verrà, il viaggio diventa elemento centrale. Come è nata questa scelta narrativa?

«È un viaggio che ho fatto davvero. Dopo quasi vent’anni a New York, sentivo dentro di me una spinta forte al cambiamento. Non era un problema della città — lo dico con forza, perché amo New York — ero io che avevo bisogno di una svolta personale, più che professionale. Avevo bisogno di tagliare con ciò che era stato.

Il piano iniziale era trasferirmi a Londra, quella che potremmo definire la versione europea di New York. Poi però la vita mi ha portata altrove: ho incontrato una persona davvero speciale, che mi ha mostrato con amore che cos’è l’amore, e adesso vivo in campagna, circondata dalla natura, con galline e gatti, one flight away from New York City ed il resto del mondo. Un cambio totale.

Anche Anna, nel libro, compie questo viaggio. Dopo una relazione complicata, sente il bisogno di ricominciare. Torna in Italia, che poi è il luogo da cui tutto era partito. Il viaggio, nella mia formazione, ha un significato profondo: ho studiato in un istituto tecnico turistico, quindi ho sempre visto il viaggio non come consumo ma come scoperta, confronto, trasformazione. È questo che accade anche ad Anna: viaggiare per lei significa crescere, evolvere».

Nel libro affronti tematiche femminili molto forti: relazioni disfunzionali, dipendenza affettiva, maternità.

«Mi piace dire che Anna è tutte noi. Credo che molte donne, specie in momenti di passaggio — i 30, i 40, i 50 anni… — possano riconoscersi in lei. L’autoanalisi è parte centrale della sua storia. Non voglio dare risposte o regole, piuttosto suggerire che non ci sono verità assolute, solo percorsi individuali.

Il libro è diviso in due parti: L’Anna che era e L’Anna che verrà. Nella prima parte si parla di una relazione che ha poco a che fare con l’amore e molto con la dipendenza emotiva. Per raccontarla in modo autentico ho lavorato con la psicoterapeuta Laura Campanello, volevo trattare il tema con delicatezza ma anche con forza. Uno dei messaggi chiave è che la dipendenza emotiva succede, non si sceglie. Non colpisce solo certi tipi di donne o certi ambienti: è subdola, può capitare a chiunque.

Poi c’è il tema della maternità, che attraversa tutta la trilogia. In L’Anna che verrà, Anna deve prendere una decisione sullo sperma del marito, morto dieci anni prima. Ha ancora la possibilità di avere un figlio da lui. È una scelta enorme, specie in un contesto come quello italiano, dove questi temi sono ancora delicati. Per raccontarla, ho parlato con donne che avevano vissuto lo stesso lutto e avevano scelto di diventare madri dopo la perdita del compagno. È stato fondamentale confrontarmi con loro per comprendere davvero.

Il libro è una sorta di grande viaggio di ritorno, una moderna Odissea, dove ad un certo punto tocca fare i conto con le proprie origini, e con se stessi».

Sei una donna di successo, un’imprenditrice e una scrittrice: essere donna oggi è ancora difficile? Viviamo ancora in una società a misura d’uomo?

«Sì, la strada è ancora lunga. Ogni volta che sento dire “ormai abbiamo superato questi problemi”, rispondo: assolutamente no. È vero, rispetto alla generazione di mia madre o di mia nonna, senza andare troppo lontano, le cose sono migliorate, ma c’è ancora tanto da fare.

Vivo tra gli Stati Uniti e l’Italia, e posso dirti che anche dentro gli stessi Stati Uniti le differenze sono enormi. New York è un’isola felice ma non è così ovunque. Continuo a pensare che non dovrebbe essere una lotta tra uomini e donne, ma una collaborazione. L’unione delle diversità è la vera forza dell’umanità.

Nel mio percorso, a un certo punto, mi sono resa conto di aver perso una parte della mia femminilità, intesa come dolcezza, tenerezza. A New York devi essere sempre forte, efficiente, sorridente. Ma anche noi donne abbiamo bisogno di esprimere le altre parti di noi, non solo la forza. Non c’è una sola scatola in cui stare. “I can fit more than one box”. Posso essere la donna d’affari e anche quella che prepara una cena con amore. E questo vale anche per gli uomini».

Che ruolo ha avuto New York nella tua vita e nella tua scrittura?

«Fondamentale. Uno dei grandi bivi della mia vita è stato arrivare a New York nel 2006, a ventuno anni. Senza New York, sarei una donna diversa. Non dico migliore o peggiore, ma diversa.

New York mi ha insegnato la tolleranza, l’amore per la diversità. In Italia a volte si guarda con sospetto lo straniero: io, quando li vedo, mi esalto. Mi ha insegnato a non giudicare dalle apparenze. Negli Stati Uniti, la persona più trasandata potrebbe essere un miliardario o un grande intellettuale o chissà cos’altro…Questo ti costringe a guardare oltre, a fare domande, a conoscere davvero chi hai davanti a non fermati davanti all’apparenza.

Mi ha dato flessibilità, energia, un’apertura mentale che mi porto dietro ovunque. Lo faccio dire anche nel libro ad Anna: io sarò sempre la ragazza di New York. Non importa dove vivo oggi — Italia, Londra, o altrove — lei, New York, sarà sempre parte di me. È un pezzo del mio bagaglio e una parte indelebile della mia identità. E poi sai come si dice, no? If you can make it here (NYC), you can make it anywhere».

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Guglielmo Timpano

Laureato in Scienze Politiche. Giornalista freelance. Conduttore radiofonico. Presentatore televisivo. Appassionato di sport, storia e animali: per combinare tutti questi interessi, il sogno sarebbe seguire un torneo di calcio tra dinosauri.

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