Fondata alla fine del 2024 da un gruppo di giovani professionisti siciliani dentro e fuori l’isola, la Fondazione Marea è una nuova realtà di Venture Philanthropy che punta a costruire un ecosistema di innovazione sociale in Sicilia, unendo competenze, risorse e tempo di “siciliani di dentro, siciliani di fuori e siciliani di cuore”. Elena Militello – giurista, ricercatrice e oggi responsabile Legal & Research della Fondazione – racconta l’idea nata da Antonio Perdichizzi, la filosofia dei “pionieri”, i primi risultati del programma “Onda” e la visione che porteranno fino a New York, dove mercoledì 3 dicembre presenteranno la loro missione alla comunità siciliana in un “Meet Marea”. Al centro, una scommessa: trasformare la diaspora in una leva di sviluppo e contrastare il drammatico trend migratorio che svuota la Sicilia.
Che cos’è la Fondazione Marea?
«La Fondazione Marea è una nuovissima fondazione di Venture Philanthropy, nata lo scorso dicembre con l’ambizione di riunire tutti i siciliani di buona volontà e portare innovazione – in particolare innovazione sociale – nella Sicilia di oggi».
E qual è il suo ruolo all’interno della fondazione?
«Sono la responsabile Legal & Research, quindi mi occupo degli affari legali e dell’ambito di ricerca. Con il mio background giuridico e accademico seguo tutte le questioni legate alla struttura e alla governance, ma anche la ricerca sulla diaspora siciliana e la costruzione di partnership e alleanze con una rete ampia di stakeholder a livello nazionale e internazionale».
Come è arrivata a lavorare nello sviluppo territoriale e in questo progetto?
«Dopo un percorso giuridico-accademico, da cinque anni mi occupo di sviluppo territoriale e di politiche pubbliche per la Sicilia. Nel 2020 ho fondato l’associazione di promozione sociale “South Working – “Lavorare dal Sud” – e attraverso quel percorso ho conosciuto gli altri attivatori della fondazione, in particolare l’ideatore Antonio Perdichizzi, che l’anno scorso mi ha coinvolta per rendere più istituzionale, tramite una fondazione, lo sforzo dal basso che tanti di noi già facevano, ciascuno nel proprio piccolo».

Il Presidente Antonio Perdichizzi durante l’evento di costituzione della Fondazione, il 18.12.2024 a Palazzo Biscari a Catania
Possiamo dire che la vostra missione è offrire opportunità concrete ma anche una nuova narrazione dell’isola?
«Assolutamente. Stiamo lavorando molto sul presentare la fondazione, con i pionieri – i nostri sostenitori – e i beneficiari, cioè i progetti che supportiamo, dentro una narrazione di una Sicilia dell’innovazione che supera gli stereotipi legati alla cronaca. Vogliamo raccontare una Sicilia in cui tante realtà stanno nascendo o crescendo, ma spesso dialogano poco fra loro. L’idea è creare una rete tra i poli dell’innovazione, coinvolgere tutte le persone che vogliono fare qualcosa per la Sicilia e restituire qualcosa all’isola. In questo modo possiamo sviluppare un ecosistema dell’imprenditorialità sociale, che oggi non è molto diffuso e spesso procede senza condividere buone pratiche, rischiando di ripetere errori già fatti da realtà simili poco distanti».
La vostra scommessa è che oggi la Sicilia sia pronta per questo passo?
«Sì. La grande scommessa è proprio attivare questa rete, un meccanismo di giveback e una cultura filantropica che storicamente non appartengono alla narrazione della Sicilia. La sfida è creare un ponte tra chi vive fuori ed è più esposto a forme di volontariato e donazione, e la Sicilia di oggi. L’obiettivo è convogliare queste energie per migliorare lo status quo e superare la narrazione gattopardesca dell’impossibilità del cambiamento. Abbiamo già interagito con centinaia di persone convinte che il cambiamento parta dal basso, dai singoli siciliani che hanno sviluppato esperienze e competenze dentro e fuori l’isola, senza aspettare una soluzione dall’alto o dal settore pubblico. Le infrastrutture sono necessarie, certo, e dobbiamo continuare a lottare per esse, ma non possiamo aspettare decenni: possiamo iniziare oggi, insieme».
Questa visione recupera anche un’eredità culturale forte, quella di Giovanni Falcone, che lei stessa ha citato.
«Sì, si lega molto. Sono nata a Palermo nel 1992, in una famiglia di giuristi, e quella frase di Falcone – “solo perché le cose si sono sempre fatte così non significa che debbano continuare a essere fatte così” – ha guidato il mio impegno sia nell’associazionismo che nella fondazione».
Perché chiamate i vostri sostenitori “pionieri”?
«L’idea nasce dal dizionario: i pionieri sono coloro che intravedono e sostengono la possibilità di un cambiamento prima che questo sia visibile. È una parola perfetta per chi crede in un’innovazione ancora in potenza. Un pioniere mi ha anche fatto recentemente notare anche un richiamo – più americano – alla figura del pioniere che cerca le pepite d’oro con il setaccio nel letto del fiume: metafora che ci piace molto, perché noi cerchiamo di trovare e sostenere realtà siciliane ad alto potenziale che hanno bisogno di supporto per emergere. Uno dei nostri pionieri, Fabio Raineri, ha usato anche la metafora del pepinier, il vivaio delle risaie dove le piantine vengono protette finché non sono pronte a essere trapiantate. È ciò che vogliamo fare: proteggere e far crescere i progetti prima di portarli “in campo aperto”».

Il Presidente Antonio Perdichizzi a un Meet Marea (Milano) – foto di Vincenzo Ingrassia
I pionieri, quindi, non sono semplici donatori?
«Esatto. Vogliamo creare una comunità. Ogni pioniere dona 1.000 euro – una donazione significativa in un contesto dove la filantropia non è diffusa – e mette a disposizione un minimo di tre ore l’anno delle proprie competenze. Possono essere attività di formazione, partecipazione a comitati o mentorship ai progetti che supportiamo. Per noi ogni pioniere è un tassello di un puzzle: mappiamo competenze ed esperienze e quando un progetto o un comitato ha bisogno di qualcosa, attiviamo la persona giusta. Le competenze vanno dalle aree legali e fiscali alla strategia, alla comunicazione ed altro. Ed è bellissimo vedere quanto si sia rivelata variegata questa comunità».
Una comunità molto diversificata, da quel che racconta.
«Sì, è uno degli aspetti di cui andiamo più fieri. Abbiamo pionieri diversissimi per età, genere, settore professionale e provenienza geografica. È una vera fondazione pansiciliana, che supera il campanilismo e comprende persone da tutte le province, spesso anche dalle aree interne. Poi ci sono i siciliani di fuori, che vivono altrove, e i “siciliani di cuore”: stranieri che si sono legati all’isola o persone che hanno investito in Sicilia e desiderano restituire qualcosa alla comunità. Rappresentano tra il 10 e il 15% dei pionieri».
Parlava di “siciliani di dentro, di fuori e di cuore”. Come interagiscono queste tre categorie?
«Sono categorie che già dialogano, ma non abbastanza. I siciliani di dentro fanno moltissimo sul territorio, e noi li supportiamo quando possibile. I siciliani di fuori spesso si organizzano in gruppi locali, senza un riferimento che abbia impatto diretto sulla Sicilia. I siciliani di cuore rischiano talvolta di prendere più di quanto restituiscono. La fondazione permette a tutti di partecipare in modo equilibrato, mettendo a disposizione risorse e competenze, e creando effetti benefici concentrici sui territori. Proprio per questo ci concentriamo sulle nuove imprese sociali: vogliamo sostenere realtà che creano impatto locale, radicamento e opportunità di ritorno o permanenza, non start-up nate magari con l’obiettivo dell’exit».
Uno dei vostri orizzonti più importanti è la diaspora. In questi giorni lei è negli Stati Uniti: come sta andando il coinvolgimento degli italoamericani?
«Molto bene. La nostra responsabile del fundraising, Francesca De Marco, è italoamericana: i suoi bisnonni emigrarono in cerca di opportunità e lei, paradossalmente, è tornata in Italia quindici anni fa per lavorare alla Bocconi. Ha poi scelto di unirsi a noi per il suo forte legame identitario. Per gli italoamericani la missione è fortissima: c’è un desiderio palpabile di recuperare le radici. Nel nostro piano strategico quinquennale abbiamo previsto fasi diverse per coinvolgere le comunità all’estero. Quest’anno abbiamo iniziato con i siciliani expat di prima generazione. Ma stiamo già dialogando con le prime generazioni italoamericane nate negli Stati Uniti. Per le seconde, terze e quarte generazioni sarà necessario un approccio più ampio, basato sul cambio di storytelling sulla Sicilia. E nei prossimi anni vogliamo anche permettere ai donatori di investire su progetti nei Ccomuni da cui provengono le loro famiglie: una sorta di “adozione del territorio”».
Veniamo all’evento di New York: di cosa si tratta?
«Presenteremo la Fondazione Marea a New York mercoledì 3 dicembre, con un pranzo “Meet Marea” dalle 12 in poi, presso la nostra fondazione partner, Myriad USA. Abbiamo infatti stretto partnership internazionali – negli Stati Uniti, in Unione Europea, Regno Unito e Svizzera – per permettere ai donatori di defiscalizzare integralmente le loro donazioni, qui molto più convenientie che in Italia. Myriad USA, che ha sede sulla Fifth Avenue vicino Bryant Park, ospiterà l’evento nel suo splendido Art Déeco building all’angolo con la 45ª (551 Fifth Avenue). Invitiamo la comunità siciliana e siculoamericana a conoscere la fondazione e i 13 progetti che supportiamo».
Qual è l’aspetto della vostra attività che finora non è emerso e che ritiene fondamentale sottolineare?
«Direi proprio il lavoro sui progetti. Abbiamo lanciato un programma di pre-incubazione di idee di impresa, “Onda”, con un tour estivo in tutte le province siciliane per far emergere idee da ogni territorio. Per 13 slot disponibili abbiamo ricevuto 417 manifestazioni di interesse e 174 candidature complete. Ne abbiamo selezionate 13 – almeno una per provincia – grazie anche ai nostri pionieri. Le idee spaziano dall’educazione alla cura della persona, dalla valorizzazione dei patrimoni artistico-monumentali all’agricoltura innovativa: tutte imprese ad alto impatto sociale. I 13 gruppi coinvolgono 64 partecipanti, più della metà donne, con un’età media di 32 anni. Li seguiremo per tre anni: non solo nella fase iniziale, ma soprattutto nell’accompagnamento quotidiano – dove spesso nascono le difficoltà. Grazie alla rete dei pionieri possiamo offrire mentorship continua, legale, fiscale, strategica, comunicativa, su qualsiasi tema o ostacolo possa sorgere. E ogni anno apriremo una nuova coorte del programma, creando una comunità di beneficiari che cresce insieme a quella dei pionieri».

Una delle presentazioni del progetto Onda in Sicilia (a Palermo), il 4 luglio 2025, presentato Elena Militello – foto di Vincenzo Ingrassia
Quindi non solo supporto economico, ma un accompagnamento costante?
«Esatto. Forniamo formazione, poi un contributo economico ai migliori progetti, e soprattutto tre anni di mentorship. La banca del tempo dei Pionieri permette ai beneficiari di accedere a competenze preziose: dall’avvocato che dedica un’ora per una questione legale alla consulenza su social media, fiscalità o gestione delle risorse umane. Vogliamo formare imprenditori e imprenditrici attenti anche all’impostazione giuslavoristica e al benessere dei collaboratori».
Un progetto ambizioso e molto strutturato. Qual è il contesto demografico e migratorio da cui nasce questa urgenza?
«Il contesto è cruciale. La Sicilia vive un’emigrazione significativa: la SVIMEZ stima che ogni anno vadano via 50.000 persone. Continuando così, la popolazione si dimezzerebbe entro il 2080, con effetti enormi: spopolamento, desertificazione intellettuale, calo demografico. Oggi si stima ci siano 5 milioni di siciliani fuori dalla Sicilia, più dei residenti in Sicilia stessa. Solo gli iscritti all’AIRE sono 844.000, il numero più alto d’Italia. La nostra sfida è guardare alla diaspora non solo come a una perdita, ma come a un’opportunità: se anche solo l’1% di questi 844.000 siciliani volesse creare un ponte con l’isola, avremmo migliaia di persone pronte a contribuire al puzzle della Sicilia».





