Jimmy Ghione (profilo IG) racconta come parmesan, prosciutti style e vini in polvere minacciano il valore culturale ed economico del Made in Italy, in particolare durante il Natale, il periodo più ricco dell’anno, e lancia un appello alla comunità italiana: “Difendiamo l’autenticità, prima che sia troppo tardi”.
Jimmy, nelle tue inchieste hai spesso denunciato il fenomeno dell’Italian sounding. Che cos’è e quanto è diffuso a New York?
L’Italian sounding è un fenomeno ormai sempre più diffuso che consiste nell’utilizzo di immagini e parole che rimandano all’italianità, facendo credere al consumatore che un prodotto sia italiano pur non avendo nulla a che fare con l’Italia. È un inganno. Da anni, con Striscia la Notizia e con Coldiretti porto avanti una battaglia per difendere i prodotti italiani, alimentari e non solo, dal dilagare delle imitazioni. Noi italiani siamo molto bravi a creare qualità e cultura gastronomica… e nel mondo cercano di copiarci. Il problema è che queste copie fanno male a tutti: traggono in inganno il consumatore dal punto di vista sonoro e visivo e danneggiano la nostra economia sul breve e lungo periodo.
A New York, che è il centro del mondo, trovi prodotti “finto italiani” ovunque: sugli scaffali ci sono packaging con tricolori, nomi come macaroni, parmesan, salami bologna loghi che richiamano il nostro immaginario come le colline toscane per esempio. Il consumatore pensa di comprare Italia, ma non c’è niente di italiano. E questo genera confusione culturale e gustativa: se abitui le persone ai prodotti falsi, poi quando assaggiano l’originale rischiano di non apprezzarlo davvero.
Per questo chiedo alla comunità italiana a New York di farsi portavoce di questa battaglia: chi conosce l’Italia autentica deve difenderla.
Molti prodotti “all’italiana”, dal parmesan al prosciutto style, invadono gli scaffali proprio nel periodo natalizio. Quanto incide questa imitazione sul valore economico e culturale del vero Made in Italy?
Il fenomeno del falso Made in Italy nel mondo supera abbondantemente i 100 miliardi di euro, e durante le festività cresce ancora di più. A Natale la gente è disposta a spendere, vuole fare bella figura con parenti e amici, e finisce per riempire il carrello di prodotti che sembrano italiani ma non lo sono.
Il danno è doppio: da una parte si sottrae mercato alle nostre aziende, dall’altra si svaluta la nostra cultura gastronomica. Quando ti vendono un formaggio industriale come “parmesan”, o un salume generico come “prosciutto italiano style”, si compromette la percezione del valore dei veri prodotti DOP e IGP. Il Made in Italy deve essere certificazione, qualità e tradizione: se lo confondiamo con la fuffa, lo perdiamo.

Hai parlato con consumatori e ristoratori newyorkesi: riescono davvero a distinguere un prodotto 100% italiano da uno che lo “mima”? Sta crescendo la consapevolezza?
Dipende. Molti ristoratori seri importano direttamente dall’Italia attraverso canali affidabili e sanno bene cosa mettono in cucina. Altri, invece, acquistano in seconda battuta per risparmiare: è lì che arriva la mozzarella non italiana, il pomodoro generico, i salumi “alla maniera”. E in una pizza, per esempio, spesso non te ne accorgi nemmeno se è mozzarella finta.
Il rischio è enorme: abituare i newyorkesi a mangiare qualcosa che non è italiano… convincendoli che sia italiano. E così perdiamo identità. C’è ancora troppa confusione a causa di packaging e marketing ingannevoli: grafica tricolore, nomi ammiccanti, slogan che richiamano l’Italia. Bisogna stare in guardia.
Da inviato e comunicatore, cosa possono fare istituzioni, media e imprese italiane per difendere la nostra reputazione agroalimentare, soprattutto all’estero durante periodi di picco come il Natale?
Serve un intervento forte. I prodotti tarocchi si diffondono perché non c’è abbastanza tutela. Rispetto a paesi come la Francia, noi siamo ancora indietro nelle politiche di protezione e promozione della nostra filiera. Gli esecutivi cambiano, le strategie pure: manca continuità. Coldiretti è uno dei pochi organismi che lavora costantemente per difendere il vero Made in Italy. Lo Stato dovrebbe fare lo stesso, intervenendo anche contro strumenti discutibili come il semaforo alimentare: ti ritrovi l’olio extravergine o il parmigiano bollati di rosso perché “troppo grassi”, mentre la cola industriale magari risulta verde. È assurdo.
In Canada e in Svezia ho scoperto delle fabbriche dove viene prodotto del vino in polvere, con dei veri e propri kit, poi venduto come vino italiano, Barolo, Chianti, solo per dirne alcuni. E poi prosciutti finti, salami sintetici, cose che non hanno nulla a che vedere con la nostra gastronomia. Bisogna agire seriamente.
Pensi che le nuove generazioni, più sensibili su sostenibilità e tracciabilità, possano essere la chiave per superare l’Italian sounding?
Io ci spero molto, nei giovani. Ma serve educazione: se un ragazzo cresce mangiando “parmesan” invece che Parmigiano Reggiano, rischia di non riconoscere più il sapore dell’originale. L’abitudine al falso è il principale pericolo. Il 90% dello sforzo però deve farlo il governo, con controlli e politiche chiare. I giovani non vanno in pizzeria a chiedere la certificazione del formaggio. Dobbiamo spiegarglielo noi: a scuola, nei media, nelle famiglie.
Che messaggio vuoi lanciare ai consumatori americani e agli italiani all’estero per scegliere davvero Made in Italy quando vogliono portare in tavola “il sapore dell’Italia”?
Il mio messaggio è semplice: dedicate due minuti in più a leggere bene l’etichetta. Controllate la provenienza, verificate che ci siano le certificazioni, evitate i “simil-italiani”. Scegliere il prodotto autentico non è solo una questione di gusto, ma di salute e di rispetto verso chi produce qualità in modo serio.
Occhio anche agli acquisti online, soprattutto a Natale quando vanno di moda i cesti “italiani”: spesso contengono roba che italiana non è. Preferite sempre l’originale: fa bene, è più buono e sostiene il vero Made in Italy.




