Intervista a John McDillan, traduttore de “La Metamorfosi” in napoletano

Ci sono libri che continueremo a considerare capolavori, capaci di superare le sfide del tempo. Allo stesso modo, esistono lingue e dialetti che, pur attraversando i secoli, mantengono la loro purezza e autenticità. Quando queste due dimensioni si incontrano, nascono opere che meritano di essere raccontate alle generazioni future. È il caso del nuovo lavoro di John McDillan, pseudonimo di un autore napoletano che ha tradotto l’opera magna di Kafka, La Metamorfosi, in dialetto napoletano.

In questa intervista, esploreremo il suo percorso di traduzione, l’equilibrio tra fedeltà al testo originale e modernizzazione, e il suo tentativo di avvicinare i lettori contemporanei a Kafka attraverso il linguaggio della sua terra. McDillan condivide anche la sua visione del Bizzarrismo, un movimento letterario che abbraccia l’assurdo e che si interseca con la sua interpretazione del capolavoro di Kafka. Un’opera che non è solo un tributo a un grande scrittore, ma un ponte culturale per una nuova generazione di lettori, che troveranno nelle pagine di McDillan un modo fresco e autentico di avvicinarsi alla letteratura, riscoprendo il valore e la bellezza della loro lingua madre.

Il napoletano è stato spesso associato a versi, favole e letteratura classica. Cosa l’ha spinta a tradurre un’opera contemporanea e complessa come La Metamorfosi di Kafka in questa lingua?

Personalmente, mi ha spinto quella sana voglia di dimostrare che l’uso di questa lingua non ha limiti. Molti credono – erroneamente – che il napoletano sia un dialetto da usare esclusivamente nell’ambito comico, ma non è così. Certo, col napoletano si può far ridere una persona, ma si può anche farla piangere, riflettere, innamorare, incoraggiare e, parlando di Kafka, inquietare. Traducendo un’opera come “La Metamorfosi”, ho voluto dimostrare che l’uso del napoletano è illimitato, perché riesce ad attraversare tutti gli spettri e tutti i piccoli scorci dell’animo umano.

Ha scelto di mantenere una certa fedeltà all’originale ma ha anche inserito espressioni e vocaboli moderni, che sostiene si ispirino anche alla diffusione del napoletano dovuta agli artisti e parolieri contemporanei. Qual è stato l’equilibrio tra rispetto per il testo e attualizzazione?

È stata un’operazione abbastanza sperimentale. A mio avviso, il tradurre un qualsiasi testo in napoletano diventa una specie di grande compromesso: una via di mezzo tra il ricordare la tradizione grammaticale e l’accettare la ricorrenza orale, tra l’assecondare l’evoluzione della lingua attuale, mostrando però rispetto per la sua radice di base…
Per tradurre ho iniziato a leggere quello che è stato già tradotto in napoletano, come “La Tempesta” tradotta da Eduardo De Filippo (Einaudi, 1984), ” ‘O Principe Piccerillo” da Roberto D’Ajello (Franco Di Mauro Editore, 2017), giusto per fare due esempi. Ho anche attinto da dei saggi, come per esempio “Una Lingua Gentile” di Nicola De Blasi e Francesco Montuori (Cronopio, 2020) e “La Parlata Napoletana”, di Sergio Zazzera (Giannini Editore, 2023).
Poi ho anche ascoltato molto le canzoni di Pino Daniele e Liberato; ho prestato attenzione alle traduzioni di alcune canzoni inglesi cantate dal duo Ebbanesis, DADÀ e ho tenuto in considerazione anche i testi di Geolier, Nu Genea, Andra Sannino e così via. Insomma, non ho escluso nessuno dall’essere “un insegnante”, dal cantante lirico a quello neomelodico. Per ultimare un lavoro del genere ho cercato di passare al setaccio tutto quello che è attualmente disponibile in lingua napoletana. Infatti, questa lingua sopravvive ancora proprio grazie ai musicisti (ma anche ai registi, ai comici, ai drammaturghi e ai poeti). A tal proposito, ho rivisto tutti i film di Massimo Troisi, alcuni di Alessandro Siani, senza però dimenticare le intramontabili commedie di Eduardo.
Insomma, l’equilibrio tra il rispetto per il testo e l’attualizzazione c’è stato, ma comunque ho tenuto conto del contesto attuale e della parlata dei giovani (e meno giovani) d’oggi.

Nel suo adattamento emerge un parallelo tra Kafka ed Eduardo De Filippo, soprattutto nel modo di esprimere emozioni come angoscia e ironia. Può raccontarci meglio questo accostamento?

Certamente. Come accennavo, i due autori sono connessi da un filo che può essere chiamato “malinconia” o, per meglio dire, ” ‘pucundrìa”. Entrambi avevano quell’attenzione nel raccontare l’uomo mettendo in risalto le sue inquietudini, i suoi concetti e preconcetti. L’accostamento è stato doveroso, soprattutto nei dialoghi presenti nella “Metamorfosi”. Una volta ultimata la traduzione, ho riletto il tutto: mi sono sentito a teatro, seduto sulla mia comoda poltroncina in attesa che il sipario si aprisse, mostrasse il palco con i suoi attori e, in conclusione, si chiudesse pian piano di nuovo, lasciandomi riflettere con un amaro sorriso sulle labbra…

Si definisce il capostipite del “Bizzarrismo”. Ce ne parli meglio.

Certo. Il Bizzarrismo è nato nel 2015. Oltre a me, c’è stato un nuvolo di persone che ha iniziato a scrivere seguendo questa scia, specialmente su alcune piattaforme digitali. Ho cercato di creare uno stile narrativo basandomi su questo concetto che mi balzò in testa in una fredda mattina di dicembre: “Il più grande nonsense per un nonsense è avere un senso…”
Scrivere in questa maniera mi permette di poter dare una carezza ai bambini e uno schiaffo agli adulti. Il mondo è stracolmo di “adulti”, che io identifico come “Normaloidi” – ossia quella moltitudine di persone che fanno cose strane, come iniziare guerre per promuovere la pace, comprare sì medicine per curarsi, ma fumando poi stecche intere di sigarette. Ecco, il Bizzarrismo tende a difendere una minoranza sempre più rara, ovvero il Bizzarro, in altre parole quell’individuo che è riuscito a rimaner bambino nell’animo, nonostante tutto e tutti.
Ovviamente, quello che scrivo tende ad essere una verità nascosta sotto bella menzogna – citando Dante. Il mio obiettivo è sempre stato di lasciare il segno nei lettori, anche con una lettura che apparentemente non ha senso.
Un lettore distratto non potrà apprezzare quello che c’è fra le righe, ma un lettore distante da tutto quello che per la maggior parte delle persone è considerato normale, riuscirà a capire ogni singola sfumatura di quello che leggerà. In altre parole, la parte migliore del Bizzarrismo si nasconde proprio lì, “fra le righe” dei miei testi.
Il primo romanzo frutto del Bizzarrismo è “17 Novelle Bizzarre +1”, e l’ultimo in programma uscirà nel 2025. Sarà pubblicato dalla casa editrice italiana Winter Edizioni, ancora una volta con il mio pseudonimo, John McDillan.

Come si collega questo movimento letterario con il suo lavoro su Kafka e con la scelta di tradurre un capolavoro come La Metamorfosi?

Kafka ci ha insegnato ad amare l’assurdo. Il Bizzarrismo è imperniato dall’assurdo. In altre parole, nei miei testi non c’è alcuna traccia di magia o di scienza reale. Nei testi di Kafka, quando un uomo si risveglia come uno scarafaggio, al lettore non sono date spiegazioni. Si è risvegliato come un insetto, punto. L’obiettivo di Kafka è quello di spingere il lettore in un contesto assurdo, che solo chi ha una certa sensibilità può intendere nel profondo. Ad esempio, io nella Metamorfosi ci vedo la difficoltà di una famiglia nell’aiutare un suo componente che diventa, inaspettatamente, diversamente abile.
In fin dei conti, io cerco di seguire lo stesso modus operandi di Kafka. Non ci sono molte spiegazioni da dare se non quelle libere, che ogni lettore può estrapolare dal contesto, dalle sensazioni e da sé stesso…

La sua attività di traduttore sembra dialogare con la cultura popolare napoletana. È anche un modo per avvicinare giovani lettori napoletani a Kafka ed altri autori?

Certamente. Sono in piena attività proprio per tradurre anche altri autori molto conosciuti. Mi viene in mente quello che scrisse Gaetano Ceraso (autore di un vocabolario napoletano del 1903). Lui scrisse che “chi esattamente parla, esattamente scrive”. Per quanto mi riguarda, credo che anche chi esattamente legge, esattamente scrive. Per questo motivo ho iniziato a tradurre diverse opere classiche in napoletano, proprio per incentivare la lettura nella nostra lingua madre partendo da qualcosa che già si conosce.
Questo produrrà non solo maggior consapevolezza della propria lingua, ma aiuterà i napoletani a limitare gli errori che fanno quando si cimentano nello scrivere in questo idioma. Producendo opere in napoletano (tradotte, o anche originali), si contribuisce alla sopravvivenza della lingua. Ecco perché, oltre ai progetti di traduzione, ho in serbo un romanzo bizzarro scritto interamente in napoletano – e poi tradotto anche in italiano e in altre lingue per favorirne la diffusione. Sto solo aspettando l’editore giusto per poterlo pubblicare, così da farlo assaporare ai miei cari lettori. E a pensarci bene adesso, è ironico il fatto che questo romanzo di cui sto parlando con voi (del Newyorkese) sia stato proprio ambientato lì, dove risiedono molti italiani, nonché napoletani: nel cuore della bellissima e intramontabile Manhattan…

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