Direttore della fotografia tra i più celebrati al mondo, Dante Spinotti ha lavorato con registi come Michael Mann e Barry Levinson, contribuendo a capolavori del cinema internazionale come Heat, L.A. Confidential e The Insider. Nato in Italia, Spinotti è considerato un maestro assoluto della luce e della composizione visiva. Lo abbiamo intervistato a Los Angeles, in occasione dello screening del film Posso Entrare, diretto da Trudie Styler e presentato all’Istituto Italiano di Cultura, su iniziativa della direttrice Emanuela Amendola, con il sostegno della Console Generale Raffaella Valentini, seguito da una conversazione moderata da Dante Spinotti stesso insieme a Valentina Martelli.
Partiamo dal film Posso Entrare. Com’è stato girarlo? Come nasce il progetto e il tuo rapporto con Trudie Styler?
Il rapporto con Trudie viene da molto lontano. Avevamo lavorato insieme 35 o 40 anni fa, quando lei era protagonista di un film che girammo a Cinecittà e anche in parte a Los Angeles. Siamo sempre rimasti in contatto e qualche anno fa abbiamo fatto Freak Show. Quando è arrivato questo progetto su Napoli, che mi affascinava profondamente perché conosco bene quella città, mi ha chiamato lei. Ho fatto il militare a Napoli, ho girato lì per la Rai e ho anche lavorato a Così parlò Bellavista di Luciano De Crescenzo, un film molto importante per Napoli.
In più, l’incontro con i produttori è stato molto bello, persone competenti e simpatiche. È stata un’esperienza straordinaria, anche perché si è sviluppata lungo un intero anno, attraversando tutte le stagioni. Veramente notevole.
A cosa ti sei ispirato per la fotografia del film?
Girare a Napoli ti porta naturalmente a lasciarti ispirare dal carattere dei suoi abitanti. I napoletani si aprono, ti raccontano la loro anima, non si trattengono. Questo era il cuore del film: Trudie voleva raccontare la gente di Napoli, ma anche le storie degli immigrati.
Mi ricordo ancora quando sono arrivato e ho detto alla produzione: “Domani alle tre del mattino andiamo in barca, porto la mia macchina da presa”. Oggi la tecnologia ti consente di lavorare in modo leggero, con strumenti fotografici piccoli ma potentissimi. Abbiamo ripreso un’alba meravigliosa con un po’ di nebbia sul Vesuvio. L’obiettivo era cogliere non solo la bellezza del paesaggio, ma anche lo spirito della città e della sua gente.

Che rapporto hai con le nuove tecnologie e con l’intelligenza artificiale nel cinema?
Le nuove tecnologie mi affascinano da sempre. Ho sempre amato la possibilità di vedere subito il risultato grazie al digitale. L’intelligenza artificiale fa parte di questa evoluzione, è un passo avanti degli effetti visivi che già usavamo da tempo.
Credo che l’AI debba essere abbracciata e compresa, può aiutarci a espandere la creatività. Certo, l’AI lavora elaborando ciò che è già esistito, mentre la mente umana può immaginare ciò che ancora non c’è, come fanno i grandi maestri del cinema. Ecco la differenza più profonda: l’essere umano guarda al futuro, l’AI rielabora il passato.
Hai iniziato molto giovane, oggi c’è una grande competizione nel mondo della fotografia. Qual è la tua chiave per distinguersi?
Oggi la tecnologia rende accessibili molte cose, e vedere subito il risultato ha semplificato certi aspetti del nostro lavoro. Ma il contributo creativo resta insostituibile. Bisogna capire bene la storia che il regista vuole raccontare. Se la comprendi davvero, puoi proporre idee, cambiare prospettiva, offrire qualcosa in più.
Ti è mai capitato di cambiare il punto di vista di un regista?
Sì, l’ultimo film che ho girato con De Niro, Nights, diretto da Barry Levinson, è stato un esempio bellissimo di collaborazione. Levinson mi ha lasciato totale libertà visiva: potevo scrivere con la macchina da presa. Certo, se qualcosa non funzionava lo diceva, ma si fidava del mio modo di narrare.
C’è stato un momento nella tua carriera in cui hai sentito di avercela fatta?
Quel momento arriva, paradossalmente, quando ti avvicini alla pensione. Io non sono in pensione, ma ho raggiunto un punto in cui non ho più bisogno di lavorare per vivere. E allora ti rilassi, ti diverti di più, scegli progetti che ti appassionano. Puoi essere più creativo, incontrare persone nuove, raccontare storie diverse. È il momento più interessante, perché non c’è più l’ansia di dover dimostrare qualcosa.
E un momento in cui hai pensato di mollare?
Mollare, mai. Ci sono momenti duri, sì. È un lavoro faticoso: orari impossibili, continui viaggi, fusi orari sballati. Ma bisogna tenere duro, restare “sul pezzo”, come si dice. È quello che dico sempre ai ragazzi: non mollate. Le difficoltà ci sono, ma si superano.