Donna Margherita: dedicato a tutte le mamme del mondo

Salvatore Lima è la prova vivente che il sogno americano esiste, ma richiede coraggio, sacrificio e dedizione. Arrivato a New York 32 anni fa dalla sua San Giorgio a Cremano, Salvatore ha iniziato dal basso, affrontando una lunga gavetta nel mondo della ristorazione. Ha lavorato in ogni ruolo possibile: dal lavapiatti al cameriere, fino a diventare chef e, infine, imprenditore. Oggi è uno dei proprietari di Donna Margherita, un ristorante che porta con orgoglio la tradizione culinaria italiana a Manhattan. Ma il successo non è arrivato facilmente: dopo anni di fatica, il suo ristorante ha aperto i battenti solo per affrontare, due settimane dopo, la pandemia. Salvatore, però, non si è mai arreso. La sua è una storia di resilienza, passione e amore per la cucina, che lo ha portato a realizzare il sogno di una vita.

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Ciao Salvatore, raccontaci com’è iniziata la tua avventura a New York. Perché hai deciso di trasferirti qui?

Sono arrivato in America 32 anni fa. Sin da piccolo coltivavo quello che tutti chiamano il ‘sogno americano’, ma posso dirti che è stato un sogno fatto di tanti sacrifici. Inizialmente, insieme ai miei fratelli, ho lavorato nell’edilizia, ma sentivo che non era il mio posto, non mi sentivo appagato. Volevo qualcosa di più, e per me quel qualcosa era l’America. Sono partito dalla mia città, San Giorgio a Cremano, e sono arrivato a New York con una famiglia del mio paese. Ho iniziato a lavorare in locali storici come Caffè Napoli e poi in un ristorante a Brooklyn, La Tarantella, dove ho imparato tanto e ho iniziato a costruire le basi per il mio futuro qui.

Qual è stato l’impatto una volta arrivato a New York?

Eh, ho visto tutto più grande… Il primo impatto è stato quello di una metropoli. E sapevo che sarebbe stato difficile, perché in una metropoli così grande devi conquistarti il tuo posto, con sacrificio.

Quando è nata l’idea di aprire il tuo ristorante?

L’idea è nata grazie a un legame speciale che ho costruito qui in America. Ho conosciuto Vincenzo Auriuso e la sua famiglia, persone che sono diventate fondamentali per me. Enzo non è solo un socio, per me è come un fratello. Abbiamo sempre avuto una grande sintonia, e spesso ci dicevamo: “Un giorno apriremo un ristorante insieme.” Enzo ha sempre creduto in me e nelle mie capacità. Mi diceva: “Se apriamo il ristorante, tu devi fare lo chef perché cucini davvero napoletano, quello autentico.” E così, alla fine, il nostro sogno è diventato realtà. È stata una scommessa condivisa, fatta di fiducia reciproca e di tanto amore per la cucina.

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Come è andata la ricerca dei fondi?

Aprire un ristorante richiede fondi importanti, e sapevamo che non sarebbe stato facile. Ma ci piacciono le sfide. Con grande sacrificio, siamo riusciti a mettere insieme quanto bastava per iniziare, e quando finalmente abbiamo aperto, era come realizzare un sogno. Ma due settimane dopo, il sogno ha rischiato di infrangersi: è arrivato il Covid, e abbiamo dovuto chiudere. È stato un momento devastante, ma non ci siamo arresi. Il governo ci ha dato un piccolo aiuto, ma la vera forza è arrivata dal quartiere. La comunità è stata straordinaria: ci ha sostenuto, ci ha fatto sentire meno soli in una situazione che avrebbe potuto schiacciarci. Quando siamo riusciti a riaprire, abbiamo visto qualcosa di magico. Le persone assaggiavano il nostro cibo e ci dicevano: ‘Wow, ma siete nuovi? Questo è incredibile!’ I loro sorrisi, il loro entusiasmo… ci hanno fatto capire che stavamo facendo qualcosa di speciale. È grazie a loro che siamo sopravvissuti e abbiamo continuato a portare avanti questo sogno. È una storia di resilienza, ma anche di gratitudine per chi ha creduto in noi.

Qual è stata la difficoltà più grande che hai affrontato nel tuo percorso?

La difficoltà più grande è stata non essere ancora cittadino americano. Non poter tornare in Italia liberamente era un peso enorme. Sapevo che, se fossi andato, non avrei potuto rientrare in America, e questo mi ha fatto perdere momenti importanti con la mia famiglia. In pochi anni ho perso due fratelli, poi mia mamma e mio papà. Sono riuscito a tornare solo quando ho ricevuto i documenti, ma è stato per dire addio a mio fratello Raffaele. Ho fatto New York-Napoli e sono andato direttamente al cimitero per salutarlo per l’ultima volta. È stata una delle cose più dure che ho dovuto affrontare. L’America ti dà tanto, ma ti chiede altrettanto. Ti spinge al sacrificio e, nel mio caso, il più grande è stato lasciare la mia famiglia. Però qui avevo una carriera avviata. Sono partito a 18 anni grazie alla famiglia della signora Tina, proprietaria de La Tarantella, che mi ha introdotto alla vera cucina napoletana e mi ha portato in America. Gli dovevo tutto, per l’occasione che mi avevano dato. Poi ho incontrato la famiglia di Enzo, un altro capitolo bellissimo della mia storia. Ho avuto la fortuna di essere accolto da famiglie straordinarie che mi hanno insegnato tanto e fatto crescere.

A New York si dice spesso che i ristoranti durano al massimo un anno. Tu hai vissuto l’ambiente di molti locali: qual è, secondo te, l’errore più grande che commettono gli italiani?

Ho imparato una cosa fondamentale nella vita: bisogna essere umili. Questo mestiere non perdona l’arroganza o la superficialità. Ci sono tante ragioni per cui un ristorante può non durare a lungo: a volte il cibo non è apprezzato, altre volte il quartiere scelto non è quello giusto per il tipo di clientela che si vuole attirare. Molti italiani, forse, sottovalutano quanto sia importante comprendere davvero il mercato americano. Non basta portare un piatto buono o un’idea vincente, bisogna adattarsi, ascoltare il territorio e costruire un legame con i clienti. La qualità del cibo è solo una parte: la vera chiave del successo sta nel creare un’esperienza che le persone vogliano rivivere. E questo richiede passione, dedizione e, soprattutto, umiltà.

Eppure, non sei arrivato qui come chef…

No, per niente. Come ti dicevo, ho iniziato con un anno al Caffè Napoli, poi sono stato sette anni a La Tarantella a Brooklyn, dove ho imparato a cucinare napoletano. Ma c’è un episodio particolare che ricordo con affetto: vicino al nostro ristorante c’era un locale francese gestito da un signore di nome Jean Jacques. Ogni mattina andavo da lui, senza essere pagato, solo per imparare. Stavo in cucina con lui, osservavo tutto, ‘rubavo il mestiere’ con gli occhi. Poi, finito lì, andavo a lavorare a La Tarantella. A La Tarantella non avevamo un menu fisso: si cucinava ogni giorno con quello che c’era. Questa idea mi è rimasta impressa, ed è qualcosa che ho voluto portare avanti a modo mio nel ristorante qui all’Upper East Side. Perché, alla fine, la semplicità è la cosa più buona. E quando riesci a trasmettere quel sapore autentico, le persone lo sentono, e tornano sempre.

Cosa consiglieresti a chi ha il tuo stesso sogno, e magari è già qui a New York?

Credi in te stesso. Circondati di persone positive e fai tanti sacrifici, perché senza sacrifici non si ottiene nulla.

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Marco Costante

Classe 1990, Marco G. Costante è autore, copywriter e ghostwriter tarantino. Storico per formazione accademica, marketer per deformazione professionale, è tra i fondatori de L’Olifante, collana di libri di approfondimento musicale, e scrive di musica, marketing e reputazione per i magazine SMMAG! e Reputation Review. Innamorato fin da bambino della cultura e degli sport a stelle e strisce, ha recentemente contribuito al saggio Against Stereotypes - The Real Reputation of Italian American di Davide Ippolito.

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